LE FATTORIE DELLA BILE IN CINA
Orsi cinesi - Le fattorie della bile in Cina


da: la Repubblica del 14 aprile 2001


NEL LAGHER DEGLI ORSI CINESI
Cina, così si torturano gli orsi nelle "fattorie della bile"

dal nostro inviato PIETRO DEL RE


CHENGDU (Cina sudorientale)

I RUDIMENTALI cateteri di ferro che Jill Robinson preziosamente custodisce in un cassetto della sua scrivania sono il pegno di una promessa. Jill ne conserva ventotto: sono lunghi una ventina di centimetri e sigillati in buste di plastica con su scritto la data in cui ognuno di essi fu estratto chirurgicamente dalla cistifellea di un orso. La sua promessa risale al '93, quando questa bionda signora nata 42 anni fa a Nottingham entrò per la prima volta in una "fattoria della bile", dove viene tuttora praticata una forma di crudeltà che tollera pochi confronti.
Racconta Jill: "All'epoca, lavoravo per un'organizzazione ambientalista e riuscii a unirmi a un gruppo di commercianti giapponesi invitati da un centro che produceva bile di orso in Cina meridionale. Durante la visita, mentre i proprietari della "fattoria" vantavano le virtù del loro prodotto, mi allontanai e mi misi alla ricerca degli orsi. Poco dopo, scesi in un seminterrato e lì ne trovai una ventina, rinchiusi in gabbie così strette che sembravano bare".

"AVEVANO il corpo pieno di piaghe e un catetere infilzato nell'addome: alcuni, resi pazzi dal dolore, sbattevano il cranio contro le gabbie fino a procurarsi orribili ferite; altri, si erano spaccati i denti mordendo il ferro. Dalle sbarre vidi spuntare una zampa gigantesca e, inconsapevole dei rischi che correvo, volli toccarla. Allungai la mano, l'orso me la strinse dolcemente. Allora gli promisi che sarei tornata e che l'avrei salvato". Quell'orso forse non c'è più, ma grazie alla promessa di Jill, il calvario di questi magnifici animali non è più un segreto di stato. Non solo: ad alcuni di essi, ventotto per l'esattezza, è stato rimosso l'infetto catetere col quale, per anni, gli è stata rubata la bile per fabbricare un antinfiammatorio dell'antica farmacopea cinese, ma anche, più recentemente, shampoo e bibite in lattina. Per impedire questo sacrilegio, Jill Robinson ha compiuto miracoli, ottenendo con la sua caparbietà più degli illuminati governi occidentali e degli agguerriti gruppi animalisti che hanno sposato la sua causa. "Nel '99 proposi la visita di alcune "fattorie della bile" agli stessi funzionari cinesi che una decina di anni prima ne avevano incoraggiato lo sviluppo semi-industriale. Accettarono e rimasero anch'essi inorriditi da ciò che videro". A tutt'oggi, le autorità di Pechino hanno rilasciato 247 licenze per l'apertura di altrettante "fattorie", dove vengono torturati 6992 orsi bruni asiatici, o "moon bears", come li chiamano gli inglesi per via della mezza luna color miele che hanno sul petto, o ancora, per usare il latino di Linneo, Ursus selenarctos tibetanus. In natura, sempre secondo i cinesi, ne esisterebbero cinquantamila; ma secondo le stime del Wwf, allo stato brado ne sopravvivono, sì e no, sedicimila. L'estate scorsa, dopo innumerevoli campagne di denuncia ed estenuanti trattative con i politici cinesi, la signora Robinson ha convinto il governo di Pechino a firmare uno storico accordo: l'associazione da lei fondata, l'Animals Asia foundation, potrà prelevare cinquecento orsi dai lager nei quali sono rinchiusi e le autorità si sono impegnate a non rilasciare nuove licenze per aprire altre "fattorie". "È il primo passo verso la fine di una barbarie che dura da tre millenni e che oggi è del tutto ingiustificata, perché si possono ottenere gli stessi effetti terapeutici della bile di orso usando piante medicinali. Ora, la bile costa 300 dollari al chilo, le piante medicinali soltanto 15". Dei cinquecento esemplari che ora le spettano, Jill ne ha già riacquistati sessantasette (versando denaro ai proprietari delle famigerate "fattorie" per aiutarli a trovare fonti di guadagno alternative). I primi orsi sono arrivati lo scorso ottobre nel centro di riabilitazione appena aperto a Liangzhou, nelle campagne della provincia del Sichuan, a un'ora di macchina da Chendgu. In questo grigio edificio, Jill vive con altre due inglesi, bionde come lei: la veterinaria Gail Cochrane e l'infermiera Beverly Elmer. Gli altri quattrocentottantré orsi dovrebbero arrivare entro la fine dell'anno, quando verrà ultimata la costruzione di un centro più capiente, in grado di ospitare l'enorme branco di malconci "moon bears". Stamattina, a Liangzhou è prevista la rimozione della cannula di ferro infilzata nella cistifellea dell'orsa Georgina. Per dieci anni, con quel catetere le sono stati munti, due volte al giorno, almeno cento millilitri di bile. Prima che inizi l'operazione Gail mi chiede se sono impressionabile: "Sa, è un po' come operare un essere umano, l'intervento sarà molto cruento. E chissà che cosa troveremo quando aprirò l'addome". Georgina pesa 130 chili e sul tavolo operatorio, nonostante quell'osceno catetere che le spunta di un paio di centimetri nel centro di un'ulcera purulenta, questo gigante addormentato somiglia a un orsacchiotto di peluche. I contadini le hanno strappato i canini e reciso la prima falange delle dita delle zampe anteriori per evitare che, una volta tagliate, le ricrescessero le unghie. Quelle delle zampe posteriori hanno invece perforato la carne dei polpastrelli, perché l'animale è rimasto supino troppo a lungo, senza poter camminare. L'operazione dura quattro ore. Mentre il bisturi penetra nella pancia dell'orsa, l'infermiera Beverly ne approfitta per tatuare Georgina e farle la pulizia dei denti che le rimangano. Gail intanto rimuove i tessuti fibromatosi e gli ascessi presenti anche sotto i muscoli dell'addome; prima di poter estrarre il catetere, dovrà asportare un quarto della cistifellea dell'orsa. Dice: "Le è stato inserito da un veterinario di campagna, o forse dal suo stesso proprietario che aveva assistito all'impianto di una cannula in un altro animale. Un cane o un gatto sarebbero morti dopo qualche giorno, ma Georgina è ancora viva dopo dieci anni. Gli orsi, in questo caso per loro sfortuna, hanno un sistema immunitario e una resistenza senza pari nel regno animale". Gail è una donna loquace, ma parla malvolentieri dei tre animali morti recentemente di peritonite, "perché l'infezione era così estesa che aveva provocato una setticemia". O dell'esemplare al quale ha dovuto offrire una morte misericordiosa, perché cresciuto tra sbarre troppo anguste che avevano impedito lo sviluppo della sua gabbia toracica: "non riusciva più a nutrirsi da solo e respirava a stento; con un groppo in gola, ho dovuto sopprimerlo". Dopo l'intervento, gli orsi recuperano in fretta. Passata qualche settimana è come se avessero dimenticato i torti subiti. Nel grande recinto vicino all'infermeria ci sono le grandi, comode gabbie che ospitano Jasper, Honey, Jay, Osée, Faith, Freedom e altri convalescenti. Alcuni sono felicemente stravaccati in ampie ceste che fungono da cucce; altri giocano tra loro; altri ancora scorrazzano e si rotolano sul prato d'erba che circonda il loro recinto. Tra questi, c'è Andrew, la mascotte del gruppo, il primo ad essere stato operato: "il più bello e il più buono" secondo le tre inglesi. Andrew è un maschio gigantesco, pesante 197 chili e monco di una zampa che perse da cucciolo, nel disperato tentativo di fuggire dalla tagliola che l'avrebbe condannato. Dopo anni di immobilità, gli orsi devono adesso fare fisioterapia nella speranza di recuperare l'uso degli arti atrofizzati. Molti di loro sono infatti malfermi sulle zampe, zoppicano, si muovono lentamente, con goffaggine. In uno stanzone del "Bear rescue center" ci sono purtroppo ancora orsi nelle gabbie "originali": minuscole prigioni arrugginite chiuse con del fil di ferro che ricordano strumenti di tortura medioevale. Qui hanno trascorso anche quindici, vent'anni della loro vita. La parte superiore delle gabbie è mobile: si può abbassare per schiacciare l'addome dell'orso e facilitare così la mungitura della bile. Questi poveretti sono gli ultimi arrivati a Liangzhou, e prima di essere liberati devono aspettare il loro turno. "Abbiamo comunque preferito tirarli fuori dalle "fattorie"", spiega Jill. "Almeno, in attesa di liberarli, diamo loro del buon cibo, e cominciamo a somministrargli antibiotici. Ovviamente operiamo una selezione: quelli che stanno peggio finiscono subito sotto i ferri". Dopo anni di sofferenze, alcuni hanno sviluppato un comportamento psicotico. Ma intuiscono che l'arrivo in questo centro per loro prefigura il paradiso. Quando ti avvicini alle vecchie gabbie, gli orsi cominciano a ringhiare, spinti dal loro animalesco coraggio. Poi, è come se capissero, e si placano. Se porgi loro un quarto di mela o una prugna secca, avvicinano il testone alle sbarre e tirano fuori la lingua rosa chiaro per prendere delicatamente quello che gli porgi, con lo sguardo onesto e implorante di un cane labrador. Costerà caro, realizzare il sogno di Jill: quattro milioni di dollari (oltre 8 miliardi di lire). Questi soldi servono a riacquistare gli animali, agli interventi chirurgici, alle spese per la fisioterapia, al sostentamento di centinaia di orsi e alla costruzione del nuovo "santuario" che sorgerà a Ziyang, a un centinaio di chilometri da Chengdu. Al momento, la signora Robinson ha raccolto un milione e mezzo di dollari, grazie al filantropico dono di un uomo d'affari di Hong Kong, Frank Pong, che ha dato il via all'operazione versando il grosso di questa cifra. Per far quadrare i conti, Jill ha anche lanciato una campagna di contributi sul suo sito internet (www.animalsasia.org). Adottare un orso costa 6500 dollari, liberarne uno 500, regalargli un giocattolo 10, un vasetto di miele o un grappolo d'uva per addolcire la sua nuova vita soltanto 5. A volte, però, i dubbi assalgono anche la tenace Jill. Allora, la sua promessa le appare improvvisamente un'irrealizzabile chimera. Come riuscirà a mantenere i 500 orsi che entro il prossimo dicembre dovrebbero affidarle? Nessun miracolo potrà annullare gli anni di sofferenze e nessuna terapia riabilitativa potrà renderli autosufficienti. In altre parole, nessuno di questi orsi potrà mai essere rimesso in libertà. E dove finiranno gli altri seimilacinquecento orsi, il giorno che il governo di Pechino deciderà di farla finirla con le "fattorie della bile"? È costoso occuparsi di un animale sano, figuriamoci di questi derelitti terrorizzati dall'uomo, che hanno gli arti semiparalizzati e nel ventre infezioni croniche. Parte della promessa che fece otto anni fa, quando si trovò di fronte a quell'abominio di umana bestialità, Jill l'ha comunque mantenuta. "Certo, vorrei che i cinesi chiudessero tutti questi campi di tortura. Ma qualcosa è stato fatto", dice guardando soddisfatta i cateteri incrostati di grumi verdastri e ormai sigillati nelle buste di plastica. "Stamattina erano ventotto. Adesso, uno di più".

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