c Migranti o profughi ambientali? Bangladesh dove inizia l’esodo climatico - 10/06/2009 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 10/06/2009]
[Categorie: Sostenibilità ]
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Migranti o profughi ambientali? Bangladesh dove inizia l’esodo climatico

Il confine di filo spinato tra India e Bangladesh, che divide prati incolti e boschetti di tamarindi, c’era già prima dell’evidenza del cambiamento climatico, ma questo fornisce un motivo in più per rafforzarlo ed estenderlo: sul lato della instabile barricata climatica del Bangladesh il mare sta invadendo il delta del Gange e gli scienziati pensano che entro la metà del secolo almeno 15 milioni di persone dovranno essere evacuate per non annegare nel mare che sale. L’India guarda terrorizzata a questa prospettiva, visto che è già alle prese con un’immigrazione clandestina inarrestabile e sta cercando di rafforzare elettronicamente e militarmente il suo poroso confine di 2.100 miglia di reticolati con il Bangladesh.

«Il Bangladesh è il Paese che potrebbe avere più rifugiati climatici di qualunque altro sulla terra – dice Isabel Hilton, un’esperta ambientale di Ong britanniche che si occupa dell’Asia – Questo muro ci dice che le persone che se ne stanno andando non devono andare in India». La prospettiva della migrazione internazionale di milioni di cittadini è un argomento delicato in Bangladesh e gli esperti di sicurezza nazionale la considerano come la peggiore conseguenza globale dei cambiamenti climatici. Secondo gli analisti militari, l’aumento delle temperature, la carenza di acqua potabile e le modifiche che subirà il territorio potrebbe portare alcune tra le già vulnerabili comunità dell’Asia-Pacifico, sudamericane ed africane, a conflitti e guerre per risorse sempre più scarse. A maggio Nicholas Stern, il famoso economista che studia le possibili conseguenze dei cambiamenti climatici, ha avvertito che la mancata riduzione delle emissioni di gas serra potrebbe portare ad «un’estesa guerra mondiale».

Nessuno sa ancora come e dove partirà le prima scintilla dell’incendio innescato dai cambiamenti climatici, ma ormai questa è diventato un serio pericolo che rende sempre più urgente un accordo internazionale sul clima. Il focolaio potrebbe anche essere in Bangladesh, dove la maggior parte del territorio Paese è meno di 20 metri sul livello del mare, con un governo indeciso tra la necessità di lanciare l’allarme sui cambiamenti climatici e il desiderio di emettere la sordina al problema praticamente irrisolvibile della migrazione.

L’India sostiene che sul suo territorio vivono già clandestinamente 5 milioni di bangladesi, il governo di Dacca risponde che si tratta di cifre gonfiate. La questione è una costante fonte di tensione tra le due nazioni e i cicloni e Il cambiamento climatico che devastano le aree costiere del Bangladesh non aiutano. Abdul Kalam Azad, senior research fellow el Bangladesh institute of International and strategic studies, ha spiegato all’agenzia stampa dell’Onu Irin che «Il problema della migrazione verso l´India è il tema di un acceso dibattito nel nostro paese, perché crediamo che le persone non siano in movimento verso l´India».

Secondo Azad quello della migrazione di massa è un problema ancora lontano, ingigantito dai media occidentali ed indiani. Non la pensa affatto così Rabab Fatima, rappresentante per l’Asia del sud dell’International organization for migration: «L’insensibilità politica ha prodotto una carenza di studi sul cosa significhi il climate change per I flussi migratori in Bangladesh. Il Paese non è ancora preparato a capire come dovrà confrontarsi con questo. L’atteggiamento prevalente è: «il cambiamento climatico è un grosso problema. La migrazione è un grosso problema. Non sono collegati. Non accadrà fino alla prossima generazione. Siamo in difficoltà».

Intanto nei villaggi di frontiera ognuno ha almeno un familiare illegalmente emigrato in India per trovare lavoro e nessuno di loro sa nulla della guerra di parole che già divide il governo del Bangladesh, le Ong e gli ambientalisti. Intanto dall’India arrivano sempre più notizie di “clandestini” ridotti in schiavitù.

Il problema è: gli uomini e le donne che fuggono dalle inondazioni che li hanno privati di tutto siano "rifugiati climatici" oppure, come dice il governo di Dacca, "migranti". Una distinzione che non è solo accademica, visto che potrebbe avere reali implicazioni per quanto riguarda i bilanci nazionali, il diritto internazionale e le politiche migratorie in tutto il mondo.

«Come chiamare queste persone? Sono rifugiati? E’ un problema veramente scomodo - dice Koko Warner, a capo dell’ufficio Environmental migration, social vulnerability, and adaptation dell’università Onu di Bonn -
Gli altri Paesi non vogliono essere responsabili di ancora più persone. Sono tutti sulla difensiva. Può diventare un tema politico molto controverso e pericoloso».

Le organizzazioni ambientaliste ed umanitarie, appoggiate da partiti politici e governi dei Paesi più vulnerabili, preferiscono il termine "rifugiato", che evoca immagini di uomini e donne cacciati dalle loro case, con solo i vestiti che hanno addosso. «Se una famiglia ha perso la sua casa o i suoi beni, se non ha la possibilità di ottenere un alloggio o comprare cibo, deve andare in qualche altro posto. E’ un rifugiato. Se questo si verifica a causa dell’impatto climatico, quindi è un rifugiato climatico - afferma Sarder Shafiqul Alam, un ricercatore del Bangladesh centre for advanced studies – Non è una guerra con le armi, è una guerra contro le calamità climatiche da parte delle comunità locali, quindi è una lotta»,.

Ad opporsi all’uso del termine "rifugiato" sono in molti compresi i governi occidentali come il nostro che temono di essere chiamati a pagare un alto prezzo per l´impatto di decenni di emissioni di gas serra. Fatima spiega il perché: «Dal momento in cui si dice che esistono i rifugiati climatici, scattano una serie di obblighi, il che, a mio avviso, è un problema. Diversi Paesi lo sostengono, ma la comunità internazionale non è ancora in grado di affrontare tali politiche»

I “Rifugiati” si trasformano in obblighi per le nazioni sviluppate. I movimenti per i diritti umani dicono che il termine “rifugiato” è già stato definito legalmente nel 1951 dalla Convenzione di Ginevra come qualcuno che deve fuggire da causa della persecuzione o di un «timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica». Proprio come molti “clandestini” che l’Italia ha rimandato a marcire in qualche lager Libico dell’amico Gheddafi che ha piantato le sue tende a Roma e parlerà al Senato italiano per illustrare la politica e l’amicizia della sua dittatura con il nostro Paese.

Secondo Cécile Pouilly, portavoce della Commissione Onu per i diritti umani questo tira e molla linguistico è dannoso:«non importa quanto siano simpatiche le vittime del cambiamento climatico, sarebbe un cattivo servizio agli 11 milioni di rifugiati del mondo in fuga da brutali dittature, violenza, repressione e guerre civili. Quello di cui abbiamo paura è che con un uso improprio del termine si indebolisca la definizione di “rifugiato´". La parola è usata dagli ambientalisti per spingere i Paesi ricchi a fare qualcosa sui cambiamenti climatici, utilizzano lo spettro di milioni di profughi che arrivano nei loro paesi su barche sgangherate. Ma ci sono altri che sono contrari, perché questo causa la costruzione di “muri” in diversi Paesi».

Ma la Pouilly ed altri non si nascondono che, al di là dei freddi termini delle Convenzioni, bisogna trovare un’altra maniera per definire "migranti" e "migrazione indotta dal clima", per descrivere la terribile previsione di 200 milioni di persone costrette ad abbandonare le loro terre entro questo secolo, un fenomeno già in atto e che i politici tendono a rimuovere.

"Rifugiato" richiama l´onere di ridurre le emissioni di gas serra e la responsabilità di gestire i milioni di sfollati dal cambiamento climatico, scaricandolo sulle spalle delle nazioni sviluppate. E Kathleen Newland, del Migration policy institute, un think tank di Washington, riassume bene il dilemma: «L´idea che altri Paesi avrebbero l´obbligo giuridico di ospitare 150 milioni di migranti del Bangladesh o da altre nazioni non penso che sia proficua. Penso che spaventi i governi che sono in grado di rispondere».

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