c Beni comuni e lavoro. Una lotta globale - 27/01/2011 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 27/01/2011]
[Categorie: Ecologia ]
[Fonte: A sud]
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Beni comuni e lavoro. Una lotta globale

[di Giuseppe De Marzo su Il Manifesto del 21 gennaio 2011] Dinanzi al disastro Italia, movimenti, comitati, reti, sindacati, studenti e associazioni hanno una necessità urgente, riuscire ad incidere nella realtà quotidiana di un paese alla deriva ed apparentemente senza prospettiva di cambio. Per farlo c'è bisogno di comprendere più a fondo la natura della crisi, le sue tendenze, i suoi legami con quella globale e come questa stia cambiando e cambierà le nostre condizioni materiali. Una crisi che crediamo sistemica, inedita e terminale, con ripercussioni ovunque e quindi anche in Italia. Ed è questo il punto di partenza pratico del neoambientalismo di cui parlano Asor Rosa e Guido Viale, o dell'ecologismo dei poveri o della liberazione di cui parliamo in molti luoghi del sud del mondo. C'è una parte enorme dell'umanità che è stata investita dalla crisi del capitalismo e dalla sua feroce e fisiologica necessità di continuare a produrre plusvalore. Le condizioni di quasi due miliardi di persone risultano peggiorate dalla necessità di assicurare al modello economico il controllo dei "servizi ambientali" cosiddetti gratuiti. Ci riferiamo al ciclo dell'acqua, del carbonio, del clima, delle sostanze nutrienti, tutti quei servizi che garantiscono la possibilità di sostenere le produzioni ed i consumi ovunque.



Parliamo del nostro "metabolismo sociale". Nel bilancio annuale tra consumi, energia e risorse a disposizione l'umanità nel 2010 ha superato la sostenibilità della Terra per oltre un terzo. Dal 21 agosto al 31 dicembre siamo stati a credito per sostenere il peso dell'impronta ecologica. Altro che protocollo di Kyoto, Obiettivi del Millennio e Fabbrica Italia. Perdiamo il 30% della nostra vera ricchezza, intesa questa come qualcosa che nessuno è in grado di restituirci. Sulla rivista Nature, Robert Costanza ha già dimostrato come la metà del Pil mondiale, circa 33 mila miliardi di dollari, sia garantito dall'utilizzo gratuito dei servizi ambientali e quindi dalla distruzione di natura e beni comuni. Come dunque il modello faccia oggi i soldi è facile calcolarlo. E l'Italia in questo non si fa mancare nulla, anzi. Basta affondare navi cariche di rifiuti tossiche davanti alle coste calabresi, riempire Napoli di monnezza, seppellire un po' ovunque nel sud del paese scarti e prodotti inquinanti, finanziare attività e megaprogetti come treni ad alta velocità, imporre la shock economy agli aquilani, costruire megaponti, centrali a carbone, privatizzare l'acqua ed eventualmente ritornare persino al business delle scorie nucleari con le centrali. Una follia disperata e violenta che ci viene raccontata come progresso e ricchezza ma che ovunque si traduce in aumento di povertà, distruzione del territorio e della biodiversità, vera ricchezza nelle nostre mani. Ma se andiamo a studiare come avviene la restante parte dell'accumulazione di capitale, scopriamo che è in atto un'altra tendenza altrettanto pericolosa. L'altra metà del plusvalore viene garantito da una gigantesca proletarizzazione di massa, circa un miliardo di esseri umani. Questi rappresentano l'esercito di manodopera di riserva che non solo consente al capitale di ridurre il lavoro a merce, ma di cancellare il contratto sociale, rendendo proibitive le lotte per la difesa del lavoro e dei suoi diritti soprattutto in quei paesi dove il welfare aveva assicurato un minimo di dignità. Proletarizzazione assicurata da diversi fattori, tra cui la distruzione delle economie locali e l'impatto dei cambiamenti climatici che provocano imponenti migrazioni ambientali.


Il disastro Italia, dunque, non può essere letto esclusivamente a partire dalle nostre specificità e dai nostri confini, ma deve essere interpretato insieme alle tendenze globali che dirigono e influenzano le stesse forze produttive italiane (questo spiega l'unanimismo del centrosinistra, incapace di una visione, e del centrodestra nel sostegno al progetto Marchionne, consapevoli dell'unica strada rimasta per continuare a fare profitto). Il clima della democrazia in Italia e nel mondo è pessimo. Rischia di non essere sufficiente l'agire esclusivo sul piano locale, se il pensare globale non si nutre di una "praxi" che possa incidere anche sul piano nazionale e internazionale. Non c'è un luogo che sfugga al cancro capitalista, nè teoria della trasformazione che possa esimersi dall'affrontare il nodo centrale della democrazia. Questo è un salto di ragionamento che tutti i soggetti che subiscono la crisi dovrebbero compiere se vogliamo riuscire a incidere maggiormente, evitando che alla crescita del conflitto sociale non corrisponda una crescita del consenso sulle nostre proposte. È dentro questo quadro che spieghiamo il superamento dell'ambientalismo del nord del mondo, la crisi delle forme classiche della rappresentanza e la nascita di nuove soggettività e di un campo come quello neoambientalista che resiste all'avanzata della nuova frontiera di conquista del capitale.


Il tipo di crisi e le sue conseguenze ci indicano la necessità perciò di saldare le lotte per la difesa dei beni comuni con quelle per il lavoro. Giustizia ambientale e sociale devono rappresentare un'unica strada sulla quale far camminare vecchi e nuovi soggetti. E allora in questa nuova fase costruire un sentire e un agire comune su alcune battaglie centrali diventa fondamentale. Per ciò che riguarda la pratica, abbiamo dinanzi due sfide che possono far uscire il paese dal torpore: lo sciopero generale indetto dalla Fiom il 28 e i referendum per l'acqua e per l'energia. La lotta dei lavoratori e quella per i referendum possono produrre un'accumulazione di forze sociali su una prospettiva di cambiamento che parte dalla difesa dei beni comuni, dei diritti, del territorio e della democrazia partecipata e comunitaria. Così come è altrettanto importante riuscire a lavorare sullo scambio dei saperi tra territori, comitati, studenti, lavoratori e movimenti per affrontare il nodo della crisi e delle alternative possibili. In questo senso è auspicabile la conferenza delle Reti di Reti nel momento in cui consenta e faciliti la crescita di una coscienza collettiva politica nuova e al passo con le sfide dei tempi. La capacità di costruire un nuovo paradigma di civilizzazione e una nuova teoria dell'emancipazione sociale passa solo dalle nostre mani. Sfida molto difficile, ma non per questo persa.



Giuseppe De Marzo

Portavoce Ass. A Sud

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