c Tornare a desiderare futuro - 15/12/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 15/12/2010]
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Tornare a desiderare futuro

Foto: 6seconds

Il 44° Rapporto Censis presentato la scorsa settimana a Roma traccia un quadro impressionante dell'Italia di oggi. Gli italiani sono un popolo che «non sa più desiderare futuro». Siamo una società «appiattita, insicura, pericolosamente segnata dal vuoto, che non riconosce più la legge, né l'autorità e le regole». Ma soprattutto siamo un Paese che ha smesso di sognare.

Ripiegati su noi stessi, apatici e senza progettualità. Se le cose stanno così, come descritte dal Censis, non basterà certo superare la crisi economica o aprire una nuova stagione politica, per riaccendere i motori. Nel profondo del corpo del Paese c'è una crisi sociale da cui rischiamo di non risollevarci. Infatti, ciò che più atterrisce è che tale incapacità di sognare è tanto più marcata nei giovani, che dovrebbero essere il domani dell'Italia, e invece hanno perso la speranza. E un giovane senza più sogni, desideri e voglia di futuro, è già vecchio. E un Paese di giovani vecchi, è già segnato.

Perché gli italiani non riescono più a desiderare? Se fosse perché hanno già tutto, sono sazi e satolli, appagati in ogni aspettativa, magari potremmo definirci soltanto dei viziati. Dei bamboccioni cresciuti nel burro, che si ubriacano del presente, ingannandosi sul proprio destino. In realtà è peggio. Non è l'appagamento dei desideri ma la profonda delusione che porta all'abbandono degli obiettivi più ambiziosi, sprofondando nella rassegnazione che «tanto non cambia nulla» e «non c'è nulla da fare». E così ci si chiude in se stessi, nel proprio particolare, della difesa corporativa dei propri interessi, nei propri piccoli o grandi privilegi. Non si esprime più uno slancio, né personale né collettivo, ma l'attitudine è a scrollarsi le spalle rassegnati e svuotati.

Pronti a reagire solo per opporsi al nuovo, a qualunque cambiamento, trincerati dentro un conservatorismo, che è ormai il tratto distintivo nazionale. Questo è il punto cruciale: non accorgersi che la chiusura difensiva e la paura del cambiamento non sono l'effetto dell'immobilità del Paese, ma ne sono la causa. Noi non siamo insicuri e instabili perché le certezze di un tempo non ci sono più, ma perché l'incapacità di cambiare e di innovare paralizza e crea la staticità, di cui siamo prigionieri.

L'opposto dell'atteggiamento avuto sulle macerie del dopoguerra, quando la voglia di ricostruire, di conquistarci un posto nel mondo, di ridare un futuro a noi stessi e ai nostri figli, ha spinto gli italiani a cambiare, a innovare, ad uscire dagli schemi del passato per dare vita all'Italia del progresso e degli anni del boom, quella che ha portato la ricchezza e il benessere del nostro Paese. Ma questo fu possibile perché non ci si attardò nella difesa dei privilegi dei garantiti di quel tempo, ma un'intera generazione fu capace di percorrere strade nuove, di inventarsi un lavoro diverso dall'Italia rurale prebellica, di lanciarsi in nuove sfide di trasformazione epocale, di grandi cambiamenti culturali e sociali. Non ci fu l'atteggiamento di conservazione che oggi domina di fronte ad ogni riforma, ad ogni trasformazione tecnologica e organizzativa, ad ogni ipotesi di nuovi modelli previdenziali, imprenditoriali, sindacali, della pubblica amministrazione, dei rapporti di lavoro.

Nel dopoguerra questo miracolo avvenne, e un'intera generazione si buttò in un modo diverso di concepire la vita rispetto a quello della generazione precedente. È questo che ora serve agli italiani: rimettere in moto un processo di cambiamento. Bisogna vincere le resistenze delle burocrazie di partito, di sindacato, di categoria, di management, di oligarchie delle classi dirigenti, ma anche di molti intellettuali e di gran parte dell'opinione pubblica, che si oppongono alle innovazioni per non venire disturbati dal proprio quieto vivere, dall'illusione autogiustificatoria che le cose stiano come trent'anni fa, secondo i modelli sociali ed economici di quell'epoca, trasformati in assoluti.

Per cambiare ci vuole coraggio e determinazione, convinzione profonda capace di fronteggiare critiche e incomprensioni, se necessario anche conflitti. Dobbiamo ritrovare il coraggio di lasciare la sponda del fiume per attraversare il guado, tornando ad investire su noi stessi e il nostro lavoro, sulle nostre capacità creative ed inventive, sul genio italico, fuori dalla preoccupazione del consenso spicciolo, delle tessere, delle posizioni consolidate, dei vecchi schemi mentali ormai obsoleti. In tutto questo, anche l'informazione ha un ruolo fondamentale nell'aiutare a capire i cambiamenti, a far emergere il merito, a rivalutare le giuste ambizioni superando la cultura del no a prescindere.

Certo, il degrado della politica e la palude in cui da almeno 15 anni il Paese è invischiato, bloccato tra berlusconismo e antiberlusconismo, non aiuta. Ma lo sfascio in corso può essere proprio la molla per reagire, per non aspettarsi dagli altri, dalla politica dallo Stato dal leader carismatico, la salvezza del Paese, ma da noi stessi. Da ciascuno di noi pronti a rimboccarci le maniche, a partire dalla propria famiglia, dalla propria città, dal proprio ambito di lavoro o sociale.

Se ci convinceremo che il nemico più grande dell'Italia di oggi non è il cambiamento ma la staticità paludosa in cui ci siamo rifugiati e nascosti, allora forse potrà scaturire quella rigenerazione culturale che fu dei nostri padri all'indomani della fine del fascismo e della guerra. Quella forza di riscatto che ha fatto dell'Italia un grande Paese nel mondo, e che oggi purtroppo si è spenta rimanendo un pallido ricordo del passato. Chissà che l'analisi impietosa che il Censis ha fatto di noi, non ci aiuti a prendere coscienza del fondo in cui siamo precipitati, e sia la molla per ripartire.

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