c Produciamo troppa energia elettrica - 23/09/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 23/09/2010]
[Categorie: Economia ]
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Produciamo troppa energia elettrica
Con il risparmio e le rinnovabili l’Italia è già in sovraproduzione. Anche per questo non c’è spazio industriale né per tornare al nucleare, né per costruire nuove centrali convenzionali o rigassificatori

di Andrea Barolini
e Andrea Di Stefano

LA VERITÀ ERA GIÀ SCRITTA NEI NUMERI. La crisi economica ha
solo evidenziato un dato che era nascosto nei report degli
analisti e delle stesse autorità dell’energia: non abbiamo
bisogno di nuove centrali per la
produzione di energia elettrica (indipendentemente
dal combustibile che
deve alimentarle). L’Italia ne produce
già in quantità sufficiente a soddisfare i nostri bisogni. Nel 2009 l’elettricità
richiesta in rete è calata del 6,7% rispetto al 2008: non si ricorda
in passato una contrazione così rilevante, maggiore di quella
del Pil, calato del 5,1%. Terna ha presentato, nell’ottobre scorso, l’aggiornamento
della previsione di base dell’energia elettrica richiesta
in rete nel prossimo decennio: 360 TWh nel 2019, riducendo in maniera
consistente la previsione dell’anno precedente. Una stima comunque
gonfiata, perché è piuttosto improbabile che si torni ai livelli
dei consumi elettrici del 2007, di circa 340 TWh, prima del 2020.

La crisi taglia i consumi
Alcuni settori energivori, colpiti dalla crisi, non riprenderanno mentre
continuerà la spinta al risparmio e all’efficienza. L’Unione Europea
ci obbliga a produrre oltre 100 TWh di elettricità da fonti rinnovabili
entro il 2020. Anche supponendo di azzerare le importazioni
di elettricità da fonti non rinnovabili (ipotesi improbabile, visto che
anche nel 2009, in piena crisi, le importazioni di elettricità sono aumentate),
resterebbero da produrre solo altri 260 TWh. Nel 2007 abbiamo
prodotto 265 TWh con le centrali termoelettriche esistenti: già
più di quelli che ci servirebbero nel 2020. Senza contare che vi sono
5.232 MW di nuove centrali convenzionali in costruzione, più 1.198
MW di nuove centrali sempre convenzionali, a combustibili fossili,
già autorizzate, ma non ancora in costruzione (siamo, quindi, già ben
oltre la sostituzione di vecchie centrali dismesse).
«Ci sono in valutazione 14 progetti di rinnovi e potenziamenti
di centrali convenzionali già esistenti - sottolinea Edo Ronchi, presidente
della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile - nonché, sempre
in valutazione, vi sono altri 41 progetti di nuove centrali a combustibili
fossili. Tutto ciò è accompagnato da impegni e investimenti
per lo sviluppo di infrastrutture per il gas. Come pare evidente, questa
crisi e gli effetti, non solo di breve termine, che ha prodotto richiederanno
di rivedere scelte e investimenti rilevanti, già avviati o
previsti nel settore elettrico. È possibile che il nuovo scenario elettrico
venga utilizzato per frenare lo sviluppo delle rinnovabili, perché
sono sostitutive di una produzione di elettricità da centrali a
combustibili fossili: possibilità che va attentamente monitorata anche
perché ci porterebbe a violare la direttiva europea sullo sviluppo
delle fonti energetiche rinnovabili. Anche a prescindere da ogni
altra considerazione sulla sicurezza e sui costi, dopo questa crisi, date
le centrali elettriche esistenti, quelle in costruzione, quelle già autorizzate
e quelle con progetti già definiti e finanziati in fase di autorizzazione,
pare proprio che non vi sia spazio, al 2020 e anche dopo,
almeno per qualche anno, per la produzione aggiuntiva di una
consistente quantità di energia elettrica proveniente da nuove grandi
centrali, comprese quelle nucleari. E, se quella nucleare dovesse
essere solo sostitutiva di energia elettrica già prodotta da altri impianti
esistenti, potrebbe portare allo stop dello sviluppo delle rinnovabili
e/o alla chiusura di impianti, ancora efficienti, a gas».

Convenienza forzata
Detto ciò, a nostro avviso alcune domande sono
lecite. In primo luogo, perché se la nostra produzione
è già eccedente si punta a costruire nuove
centrali? Il problema sta piuttosto nella rete di distribuzione,
che (come ampiamente evidenziato
da Valori in passato), «è colma di “colli di bottiglia”,
che non permettono l’erogazione di quanto
prodotto», sottolinea Delia Nardone, della segreteria
nazionale del sindacato Filctem-Cgil (federazione
dei lavoratori chimici, tessili, dell’energia e
delle manifatture). Ancora: se si considera che
Enel, la principale azienda che produce energia
elettrica nel nostro Paese, ha 53 miliardi di euro
di debiti, che senso ha sostenere nuove spese per
il nucleare? E, sempre considerando i debiti che
pesano sulla società elettrica, com’è immaginabile
che non venga coinvolto in alcun modo lo Stato?
Verrebbe da immaginare che la rincorsa al nucleare sia dettata soprattutto
dalla necessità di mantenere Enel sul mercato: se lo Stato facesse
la sua parte, infatti, i reattori potrebbero garantire competitività all’azienda.
Una scelta strategica, quindi. Ma prettamente privata. E che,
ragionevolmente, è difficile immaginare come possa non risultare in
buona parte a carico dei contribuenti.
Senza considerare che, ricorda Davide Tabarelli, di Nomisma Energia:
«Se si decidesse poi di tornare indietro, chiudere una centrale costa
quaranta volte di più che tenerla aperta».

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