c Così la Natura sta per toglierci la fiducia - 01/09/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 01/09/2010]
[Categorie: Sostenibilità ]
[Fonte: Eddyburg.it]
[Autore: Carla Ravaioli]
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Così la Natura sta per toglierci la fiducia
Esauriamo ogni anno con maggiore anticipo il nostro credito con la natura, e la politica non se ne accorge. Schizofrenia? Il manifesto, 29 agosto 2010

Più volte, riflettendo su comportamenti e scelte relativi al problema ambiente da parte di quanti hanno responsabilità politiche, ho parlato di «rimozione»: cioè di quell'inconscia operazione di autodifesa che, secondo la psicoanalisi, viene messa in moto in presenza di una minaccia insopportabile ad un confronto consapevole. Non mi pareva altrimenti spiegabile l'insistenza su linee economiche dall'intera comunità scientifica dichiarate incompatibili con l'equilibrio degli ecosistemi. Da qualche tempo però, in presenza di calamità «naturali» sempre più frequenti e disastrose, associate a politiche orientate alla crescita del prodotto quale obiettivo primo e imprescindibile, questa lettura mi appare sempre meno adeguata. E sempre più spesso mi trovo a pensare piuttosto a quella alterazione profonda del rapporto con la realtà, nota come «schizofrenia».

In particolare sono stata indotta a questa riflessione il 17 agosto scorso, quando il «Global Footprint Network» (nota organizzazione americana di ricerca ambientale) ha pubblicato lo stato dei «conti della natura». I quali ci dicono che, il 21 agosto, con un mese di anticipo rispetto allo scorso anno, l'umanità ha esaurito tutte le risorse che la natura le aveva riservato come «capitale» da cui attingere nel 2010: sia per soddisfare i propri bisogni di sopravvivenza, sia per alimentare la produzione di ogni sorta, anzi la crescita di ogni produzione, come la linea delle politiche economiche del mondo impone.

Dal 21 agosto dunque stiamo intaccando il «capitale» naturale. Ed è una netta rottura rispetto alla storia della specie umana, da sempre rispondente a un consumo di risorse inferiore a quello che il pianeta era in grado di rigenerare e continuare a fornire. Da circa tre decenni abbiamo superato la soglia critica e - come è stato detto - «la Natura sta per toglierci la fiducia».

O forse ce l'ha già tolta? A giudicare dagli eventi di questa estate, non sembra azzardato domandarselo. Bastino alcune notizie colte qua e là dalla stampa italiana (La Repubblica, Il manifesto, Liberazione, Internazionale, ecc.) di questa drammatica estate. Dopo la gigantesca polivalente e tuttora irrisolta catastrofe del Golfo del Messico, si ebbe un maggio con Laila, il primo ciclone indiano (23 morti e più di 70mila profughi), e una serie di alluvioni in Polonia, Ungheria, Serbia, Repubblica Ceca (almeno 9 morti); un giugno con almeno 152 morti e oltre 100 dispersi in Guatemala, Honduras e Salvador, più una gravissima siccità in Niger e Mali; un luglio con una prima alluvione in Cina (123 morti o dispersi) e un'ondata di freddo polare sul cono sud dell'America Latina.

Poi venne l'agosto con temperature oltre i 50° in Russia (e incendi devastanti, giornate irrespirabili, perdite calcolate sui 15 miliardi di dollari, centrali atomiche a rischio, di nuovo l'incubo di Chernobil); e la catastrofe pakistana, gigantesca onda di piena che ha percorso l'intero bacino Indo da nord a sud, sommerso un terzo del territorio nazionale, distrutto raccolti per 1 miliardo di dollari, ucciso 1600 persone, costretto 20 milioni a sfollare. Mentre un'altra inondazione colpiva la contea cinese di Zhoku, in 24 ore causando oltre 700 morti.
Ma l'agosto non si è limitato a colpire il cosiddetto sud del mondo, da sempre soggetto a tutte le maledizioni: un super-monsone ha allarmato l'Europa, con una corrente d'aria fredda penetrata nel nord del nostro continente, facendo soffrire prima l'Inghilterra, poi Francia, Nord Italia, Sicilia, Medio Oriente. Mentre una corrente di aria calda dal Sud Mediterraneo saliva verso nord, raggiungeva Repubblica Ceca e Russia:15 morti.

Ma parlavo sopra di schizofrenia. Come altro definire la politica oggi perseguita in tutto il mondo, in sostanza riassunta nell'impegno alla «crescita»? Cioè nella strenua incentivazione della medesima politica che sta mettendo a repentaglio la stessa continuità della vita sulla terra (non è più solo la scienza a dirlo, ma la brutale contabilità di risorse sempre più scarse, o irraggiungibili)? Questo oggi infatti accade, in nome del superamento della crisi: un obiettivo che accomuna le scelte di ogni paese e di ogni forza politica. Un obiettivo obbligato, data la vastità e la pesantezza di un fenomeno che da un lato inceppa la gran macchina di produzione e consumo su cui tutti hanno scommesso il futuro, dall'altro crea disoccupazione, precarietà, impoverimento.

Obiettivo forse però altrimenti perseguibile, qualora venisse rapportato a una realtà come quella sopra descritta: un ecosistema sempre meno capace di alimentare la collettività umana, in quanto proprio da questa sistematicamente aggredito e dilapidato. E qualora si cercasse di individuare le cause di quanto accade, considerando che un mondo radicalmente mutato, forse non risponde più alle tradizionali operazioni anti-crisi; che la stessa crescita del Pil non garantisce più recupero dell'occupazione, e quindi ripresa dei consumi, sviluppo, ecc. come osserva ad esempio Paul Krugman (v. La Repubblica del 28 agosto).

Magari riflettendo sul fatto che il progresso scientifico e tecnologico sempre più è in grado di sostituire il lavoro umano, non soltanto fisico, così che battersi per l'occupazione nei modi storici forse difficilmente può essere risolutivo. E considerando che se indubbiamente esiste una globalizzazione economica (essendo anzi il divenire economico non solo causa prima della globalizzazione stessa, ma tuttora agente decisivo del suo porsi ed evolversi). Così come indubbiamente esiste e velocemente si espande una globalizzazione culturale, in virtù di comunicazioni sempre più facili e fitte, e soprattutto di insistite sollecitazioni al consumo. Non esiste però una globalizzazione politica.

Considerazioni e interrogativi del genere non dovrebbero essere impegno delle sinistre? Non toccherebbe loro di cogliere l'evidente impasse del capitalismo per tentare di pensare la possibilità di un mondo diverso, non impegnato almeno a distruggere se stesso? Ma no. Tra piccole rivalità e rissose quanto vaghe «convergenze», le sinistre insistono nel tentativo di far fronte al presente e al futuro con la cultura del passato, ignorando il fatto che oggi forse potrebbe essere il loro momento.

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