c La Modernità inizia quando la filosofia delle città sconfigge la filosofia dei monasteri - 14/04/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 14/04/2010]
[Categorie: Storia ]
[Fonte: Stampalibera]
[Autore: Francesco Lamendola]
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La Modernità inizia quando la filosofia delle città sconfigge la filosofia dei monasteri

La partita decisiva della modernità non si è giocata con l’Illuminismo e l’«Encyclopédie», né con la Rivoluzione scientifica del XVII secolo, e nemmeno con l’Umanesimo e il Rinascimento: ma prima ancora, nel XII secolo, quando la filosofia dei monasteri – che, per secoli, erano stati gli unici centri di cultura e di vera spiritualità – ingaggiò la sua battaglia contro la filosofia delle università cittadine: e la perse.
Potremmo perfino indicare una data, un luogo e una circostanza precisi, ad indicare quel momento decisivo nella storia del pensiero occidentale: la data è il 1108; il luogo è la cattedrale di Parigi ancora in costruzione; la situazione è la disputa fra il “magister” della scuola, Guglielmo di Champeaux, e il suo giovane allievo Pietro Abelardo, alla presenza di una folla, compresa e partecipe, di centinaia di spettatori.
L’oggetto della disputa: la questione degli universali. Si trattava, cioè, di stabilire se gli universali (quelli che, nella filosofia di Platone, corrispondono alle Idee), siano una “res”, abbiano cioè esistenza in se stessi e un grado di realtà non diverso dai sostantivi di persona o cosa; oppure se essi siano soltanto “sermo”, concetto, vale a dire parole cui corrisponde un significato, con un proprio contenuto logico.
La posizione realista, in linea con la filosofia di Platone e di Sant’Agostino, è sostenuta da Guglielmo di Champeaux; quella concettualista, critica verso il nominalismo di Roscellino (già condannato dal Concilio di Soissons del 1092), ma altrettanto critica verso il realismo, è sostenuta con grinta straordinaria da un giovane ambizioso e passionale, che sta facendo molta strada e si sta mettendo in luce per i suoi atteggiamenti speculativi audacemente anticonformisti: Pietro Abelardo (che il grosso pubblico moderno conosce soprattutto per la sua melodrammatica storia d’amore con la sua allieva Eloisa; storia che mostra soltanto quanto lei fosse capace di alto sentire e quanto lui, invece, fosse arido e meschino).
Oggi si tende a dimenticarlo, ma la ripresa urbana iniziata con l’XI secolo non proiettò solamente luci, ma anche ombre sulla vicenda spirituale dell’Europa medievale: molti intellettuali videro in essa – e non a torto – l’inizio di quel processo di progressivo allontanamento da Dio e dalla spiritualità che, più tardi, avrebbe preso il nome di secolarizzazione. In effetti, anche la disputa di Parigi del 1108 si svolse, sì, in un edificio sacro – una cattedrale – ma nel contesto della nascente cultura urbana, quando già il monastero aveva perduto la sua presa spirituale sull’Europa.
Ci si può domandare perché mai il primo, sofferto sforzo speculativo del basso Medioevo abbia avuto come centro ideale la disputa su una questione apparentemente così astratta, come gli universali. La risposta è facile: non era affatto una questione astratta, perché da essa discendevano decisive conseguenze sul piano religioso, politico, sociale e culturale.
Se, infatti, gli universali sono una sostanza reale, allora è legittima la pretesa universale dei due grandi poteri del tempo, la Chiesa e l’Impero; allora esiste un principio di verità, unico, indubitabile, oggettivo; allora anche la Trinità rimane salda al centro del creato, perché riunisce in unità le tre Persone divine. Se, viceversa, gli universali non esistono che come concetto logico di colui che li pensa, collegandoli alle cose individuali, allora tutto questo edificio, consacrato dai secoli, incomincia a franare, lentamente, ma inarrestabilmente… E che stia continuando a franare ancora oggi, è sotto gli occhi di tutti.
Ebbene: la disputa si conclude con il trionfo di Pietro Abelardo. Sotto il suo argomentare logico, implacabile, incalzante, Guglielmo di Champeaux, il suo vecchio maestro, deve pubblicamente riconoscersi sconfitto e abbandonare clamorosamente la cattedra, schiacciato dal peso dell’umiliazione patita. Ha vinto Abelardo, ha vinto il concettualismo; e la modernità ha vinto la sua partita decisiva. Tutto quel che viene dopo, non sarà che l’inevitabile conseguenza di quella vicenda e di quella disfatta del realismo di matrice platonica.
È ben vero che San Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, riprende la questione e la risolve con incomparabile eleganza, distinguendo l’universale “ante rem”, ossia con una propria individualità che precede gli oggetti individuali; l’universale “in re”, cioè nelle cose stesse; e l’universale “post rem”, ossia un’astrazione presente solo nella mente umana: che corrispondono, più o meno, al realismo, al concettualismo e al nominalismo (quest’ultimo nella sua versione più moderata e non in quella estrema dell’universale come “flatus voci”). Ma l’ha risolta davvero, o l’ha solamente mascherata, aggirando il punto fondamentale?
La cultura moderna vorrebbe farci credere che il Medioevo sia stato un lungo sonno della ragione, un periodo di oscurità, superstizione e barbarie. Questo è, più o meno, quello che migliaia di professori di filosofia insegnano oggi nei licei e nelle università; che innumerevoli romanzieri, giornalisti, registi cinematografici e televisivi continuano a ripetere, fino alla noia, ad esempio descrivendoci il mondo dei monasteri – come ne «Il nome della rosa» di Umberto Eco – come una sentina di vizi, di malvagità, di ipocrisia e di intolleranza.
Altro che rivedere i testi di storia del ‘900, bisognerebbe partire almeno dal Medioevo, di cui si vuol fare di tutto per presentare un’immagine orribilmente deformata: e questo perché non si ha l’onestà intellettuale di ammettere che la si vuole deturpare per spirito fazioso, vale a dire per avversione ideologica nei confronti del Cristianesimo.
Già, il “buio” Medioevo: però le cattedrali stanno lì, come mirabili montagne di pietra istoriata, a testimoniare lo slancio di una intera civiltà verso il divino, verso il trascendente… Macché monasteri pieni di frati corrotti, lascivi, sadici, ignoranti e fanatici, incapaci di bontà e di sorriso. Vogliamo parlare di numeri?
Nel 1.098 viene fondato l’ordine cistercense da 21 frati al seguito di Roberto di Molesme; 50 anni dopo, esso può contare 344 abbazie, le quali, nel 1200, sono salite a 530, sparse in tutta Europa, dalla Norvegia al Portogallo, dall’Irlanda all’Italia.
Ancora.
Nel 1226, l’anno della morte di San Francesco, l’ordine mendicante da lui fondato conta 5.000 membri sparsi fra Ungheria, Inghilterra, Germania, Francia, Spagna e Italia. Nel 1280, vale a dire poco più d mezzo secolo dopo, i francescani sono diventati 200.000 e vivono in 8.000 conventi. La loro regola è durissima, eppure la crescita dell’ordine è spettacolare (cit. in Ruffaldi, Caretti, Nicola, «Il pensiero plurale», Torino, Loescher, 2008, vol. I, p. 616, 634).
Tutti pazzi, fanatici e ignoranti; tutti bruti, odiatori del mondo e della civiltà? Suvvia, lasciamo dire queste sciocchezze ai mediocri ed attardati eredi di quella mediocre cosa che è stata l’Illuminismo; lasciamo che a parlare sia il puro buon senso. Le condizioni di vita non erano tali da giustificare una fuga in massa dalla società civile; al contrario, come si è detto, è proprio dall’XI e dal XII secolo che un nuovo fervore di vita percorre l’Europa, conseguenza della rivoluzione agricola: ed anche le città cominciano a rifiorire. Le ultime grandi incursioni barbariche – dei Vichinghi, dei Saraceni, degli Ungari – sono ormai un lontano ricordo del passato. Vi sono opportunità di lavoro e di guadagno per nuove classi sociali, prima impensabili: dai professionisti agli artigiani, dai commercianti ai banchieri.
No, la spiegazione della “fuga dal mondo” per il malessere economico-sociale non regge: un fenomeno di proporzioni così impressionanti non si verifica in un’epoca di espansione della vita materiale, ma semmai di regressione; a meno che non abbia delle profonde, autentiche, vitali radici spirituali. A meno, cioè, che non abbia realmente una proposta affascinante per gli uomini e per le donne (non dimentichiamo le donne: Ildegarda di Bingen, Mechthild von Magdeburg e tante altre) del proprio tempo. In cambio di una vita poverissima, materialmente ridotta all’essenziale.
Come dice Dante («Paradiso», 73-84):

«Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La loro concordia e i lor lieti sembianti,
amore e meraviglia e dolce sguardo
facìeno esser cagion di pensier santi;
tanto che ‘l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
Dietro allo sposo, sì la sposa piace.»

Ma intanto, in mezzo a tutto questo fervore religioso, qualcosa sta cambiando. La rinascita delle città e il rifiorire dei commerci porta alla formazione delle banche, la cui logica è basata sul prestito del denaro a interesse: ciò che la Chiesa aveva sempre condannato, equiparandolo all’usura.
Non solo.
Il successo dei mercanti, basato su una percentuale di rischio calcolato, sposta significativamente l’orizzonte etico e spirituale del borghese, questa nova figura sociale che è al centro della trasformazione: il lavoro, per lui, non è più strumento di redenzione dal peccato, ma occasione per l’accumulo di ricchezza; e non per spenderla, come fa il nobile, ma per reinvestirla in altre imprese e per aumentarla sempre di più, in un vortice senza fine.
Il mercante si va convincendo che la sua fortuna dipende unicamente dal senso degli affari, dall’intelligenza, dalla spregiudicatezza, dalla capacità di correre dei rischi in vista di notevoli profitti: la sua anima si allontana da Dio. Non ringrazia più il Creatore per il proprio pane quotidiano, come ancora fa il contadino, ma si esalta al pensiero della propria bravura, del proprio intuito: di quella che Boccaccio chiamerà “l’industria”: qualità puramente umana, come se la creatura fosse divenuta autosufficiente.
La civiltà europea è giunta a un bivio, e i suoi intellettuali lo sanno; anche quando sembrano disputare di cose lontanissime dalla realtà del lavoro e della vita di ogni giorno, come nel caso della ricerca filosofica sulla natura degli universali. La posta in gioco è alta, molto alta: alla cultura urbana corrisponde un modello di vita laico e secolare, che, almeno tendenzialmente, contraddice nella maniera più radicale i valori del Vangelo, primo fra tutti la povertà.
La povertà non è più un valore, non è più una scelta di vita che avvicina a Dio; al contrario, incomincia ad apparire come un peso, come una maledizione, contro cui bisogna lottare strenuamente. A partire da quest’epoca, il povero non è più l’immagine vivente del Cristo, ma un disgraziato, un vagabondo, una potenziale minaccia e un oggetto di disprezzo. Anche i valori cortesi e cavallereschi sono al tramonto: quello che conta è la potenza del denaro; denaro non da spendere in gesti di magnificenza, ma da accumulare senza posa.
In un primo tempo, le corporazioni di mestiere servono anche a regolamentare la concorrenza fra le imprese e a combattere le fonti di guadagno illecito: l’antica diffidenza verso il Dio denaro è ancora viva; poco a poco andrà spegnendosi, e il nuovo modello vincente sarà proprio quello del commerciante e del banchiere che diventano sempre più ricchi, con ogni mezzo, senza guardare in faccia a nessuno
Inoltre, a partire da quest’epoca, l’abitante delle città comincia a sentirsi superiore al contadino, pur essendo egli stesso un contadino inurbato (abitante dei borghi, da cui “borghese”): e lo detesta e lo disprezza con quella bieca protervia che si riserva a ciò che si è stati, ma che non si vuole più ricordare.
L’Europa incomincia a tagliare le proprie radici, a divenire schizofrenica: le città vivono dei prodotti della terra, del lavoro dei contadini; ma sono anche il luogo ove si accumula denaro e dove si elaborano i nuovi modelli culturali, basati su una progressiva laicizzazione. “Contadino” diviene un’offesa; ancora un po’ di tempo, e anche “prete” diverrà un dispregiativo. Si legga Boccaccio, si legga Chaucer, si legga la «Nencia da Barberino» di Lorenzo de’ Medici: la satira del “villano” è diventata il condimento più gustoso del repertorio comico-burlesco.
La filosofia delle città – disinibita, presuntuosa, arrogante – ha vinto; e quella dei monasteri ha perduto: anche se il diffondersi degli ordini mendicanti e la costruzione delle grandi cattedrali testimoniano che la fede e la ricerca di una dimensione spirituale della vita non sono ancora venute meno.
Non è una vittoria di cui si dovrebbe andare troppo fieri, comunque, quella della filosofia cittadina; presenta le sue ombre e non solo delle luci, come la cultura di matrice illuminista vorrebbe farci credere.
L’uomo non è fatto solo per guadagnare e accumulare sempre più denaro; vi è una dimensione trascendente, in lui, che è stata mortificata, vilipesa, negata, perfino psicanalizzata, quasi fosse una patologia.
Quali sono le cattedrali della modernità? Le Borse, gli aeroporti, i centri commerciali? Quali sono i riti che vi si celebrano e qual è il nuovo clero che detiene il potere? Che appagamento trovano in tali liturgie le autentiche esigenze dell’anima?
Dovremmo farcele, queste domande, ogni tanto.
Questo non è passatismo: questo è puro buon senso.
La civiltà medievale ne aveva, di buon senso, più di quello che oggi non si creda e non si voglia ammettere; così come ne aveva, e parecchio, la nostra antica civiltà contadina, scomparsa appena due generazioni or sono.
E noi, quanto buon senso abbiamo ancora?

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