c Anticapitalismo e giustizia climatica - 07/04/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 07/04/2010]
[Categorie: Politica ]
[Fonte: A sud]
[Autore: Esther Vivas]
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Anticapitalismo e giustizia climatica
Per sua natura, parlare di come affrontare il cambiamento climatico significa discutere di strategia, di auto-organizzazione, di pianificazione e dei compiti che quelle e quelli, tra noi, che si reputano anticapitalisti devono svolgere.

Il cambiamento climatico è, al giorno d'oggi, una realtà innegabile. La eco politica, sociale e mediatica suscitata dal vertice di Copenaghen, a dicembre 2009, ne è stata la prova. Un vertice che ha mostrato l'incapacità del sistema capitalista di dare una risposta credibile ad una crisi generata dallo stesso sistema. Il capitalismo verde s'inserisce nel contesto del cambiamento climatico fornendo una serie di soluzioni tecnologiche (energia nucleare, captazione del carbonio dell'atmosfera per il suo immagazzinamento, agrocombustibili, etc.) che provocheranno impatti sociali e ambientali ancora più grandi. Sono risposte sbagliate al cambiamento climatico: non attaccano le cause strutturali foriere della situazione attuale di crisi, ma cercano invece di trarre profitto da quest'ultima, senza risolvere la contraddizione insita tra calcolo miope del capitale e tempi lunghi dell'equilibrio ecologico.

In un contesto come questo, è urgente che sorga un movimento capace di mettere in discussione i principi del capitalismo verde, mostrando l'impatto e le colpe dell'attuale modello di produzione, distribuzione e consumo capitalista e legando la minaccia climatica globale ai problemi sociali quotidiani. Copenaghen è stata finora la più grande manifestazione del movimento per la giustizia climatica, evento che è coinciso esattamente con il decimo anniversario delle mobilitazioni contro l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) a Seattle. Una protesta che, sotto lo slogan “Cambiamo il sistema, non il clima”, dimostra l'esistenza di una relazione ampia tra giustizia sociale e climatica, crisi sociale e crisi ecologica. Il successo delle contestazioni a Copenaghen contrasta, tuttavia, con la debolezza delle dimostrazioni di protesta che si sono avute a livello mondiale, salvo alcune eccezioni come Londra.

La crisi attuale impone con urgenza di cambiare il mondo dalle fondamenta e di rifondarlo in un'ottica anticapitalista ed ecosocialista radicale. Anticapitalismo e giustizia climatica sono due battaglie che vanno portate avanti insieme. Qualsiasi tentativo di rottura con l'attuale modello economico che non tenga in conto l'importanza della crisi ecologica è destinata al fallimento e qualsiasi proposta ecologista senza orientamento anticapitalista, di rottura con il sistema attuale, non toccherà che la superficie del problema e potrebbe, alla fine, rivelarsi uno strumento al servizio delle politiche del green marketing.

Frenare il cambiamento climatico significa modificare il modello attuale di produzione, distribuzione e consumo. I ritocchi superficiali e cosmetici non servono a niente. I rimedi alla crisi ecologica devono colpire i pilastri dell'attuale sistema capitalista. Se vogliamo che il clima non cambi, è necessario cambiare il sistema. La necessità, da questo, di avere una vera prospettiva ecosocialista o “ecocomunista”, come ha scritto Daniel Bensaïd in uno dei suoi ultimi articoli.

Si devono combattere, con la stessa forza, le tesi del neo-malthusianesimo verde che accusano i paesi del Sud di avere tassi demografici elevati a causa del controllo esercitato sul corpo delle donne, sottratte del diritto di decidere del proprio corpo. Lottare contro il cambiamento climatico implica affrontare la povertà: a maggiore disuguaglianza sociale corrisponde, infatti, maggiore vulnerabilità climatica. È necessario riconvertire quei settori produttivi che impattano gravemente a livello sociale e ambientale (industria militare, automobilistica, mineraria, etc.), creando posti di lavoro in settori sociali ed ecologicamente sostenibili come l'agricoltura ecologica, i servizi pubblici (sanità, istruzione, trasporti) per fare qualche esempio.

Fermare il cambiamento climatico significa puntare sul diritto dei popoli alla sovranità alimentare. Il modello agroindustriale attuale (delocalizzato, intensivo, a lungo chilometraggio, dipendente dal petrolio) è uno dei massimi responsabili della produzione di gas effetto serra. Puntare su una agricoltura ecologica, locale e su dei circuiti corti di commercializzazione permette, come afferma La Vía Campesina, di raffreddare il pianeta. Allo stesso modo, bisogna ascoltare e rispondere alle domande dei popoli indigeni che vogliono il controllo delle loro terre e dei beni naturali in esse contenuti, la loro visione del mondo e il rispetto verso la “pachamama”, la “madre terra” e la difesa del “buen vivir”. Valorizzare questi contributi che modellano un nuovo tipo di rapporto tra genere umano e natura è la chiave per affrontare il cambiamento climatico e la mercificazione della vita e del pianeta.

Da un punto di vista Nord-Sud, giustizia climatica significa, da un lato, cancellazione incondizionata del debito estero dei paesi del Sud, un debito illegale e illegittimo, e dall'altro la richiesta del riconoscimento del debito sociale, storico ed ecologico che il Nord deve al Sud dopo secoli di sfruttamento e depredazione. In caso di catastrofe, è necessario promuovere meccanismi di “aiuto popolare”. Abbiamo visto come il cambiamento climatico aumenti la vulnerabilità delle popolazioni, specialmente nei paesi del Sud. I terremoti ad Haiti e in Cile sono due dei casi più recenti. Per affrontare queste minacce sono necessarie reti di solidarietà internazionale tra i movimenti sociali di base che permettano una canalizzazione degli aiuti immediata ed effettiva verso le popolazioni locali. La iniziativa non può rimanere in mano ad un “umanitarismo” internazionale vuoto di contenuto politico.

La lotta contro il cambiamento climatico deve rivolgersi anche contro l'attuale modello di produzione industriale, delocalizzato, “just on time”, di massa, dipendente dalle risorse fossili, etc. Le burocrazie sindacali fanno propaganda e legittimano le politiche del “capitalismo verde” raccontando che le “tecnologie verdi” creano impiego e generano maggiore prosperità. È necessario smontare questo mito. La sinistra sindacale deve mettere in discussione l'attuale modello di crescita senza limiti, puntando su un altro modello di “sviluppo” rispettoso delle risorse non rinnovabili del pianeta. Le rivendicazioni ecologiste e contro il cambiamento climatico devono essere un asse centrale del sindacalismo combattivo. I sindacalisti non possono vedere gli ecologisti come loro nemici, e viceversa. Tutte e tutti patiamo le conseguenze del cambiamento climatico ed è necessario agire collettivamente.

È sbagliato pensare che possiamo combattere il cambiamento climatico solo partendo dalla modifica delle abitudini individuali – soprattutto quando metà della popolazione mondiale vive in una condizione di “sotto-consumo cronico” - ed è anche sbagliato pensare che possiamo lottare contro il cambiamento climatico solo attraverso soluzioni tecnologiche e scientifiche. Sono necessari cambiamenti strutturali nei modelli di produzione dei beni, dell'energia, etc. In questa direzione, le iniziative che dal locale producono alternative pratiche al modello dominante di consumo, produzione ed energetico... hanno un carattere dimostrativo e di formazione delle coscienze che è fondamentale sostenere.

Per sua natura, parlare di come affrontare il cambiamento climatico significa discutere di strategia, di auto-organizzazione, di pianificazione e dei compiti che quelle e quelli, tra noi, che si reputano anticapitalisti devono svolgere.

- Esther Vivas è autrice di “Dal campo al piatto” (Icaria editorial, 2009).

Traduzione di Valentina Vivona

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