c Contributo al dibattito: alternative alla crisi della modernità/colonialità - 07/04/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
Home Capitolo
APRE CAPITOLO RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
Invia questa notizia ai tuoi conoscenti
Home Sito
APRE IL SITO DI PROGETTO GAIA
[Data: 07/04/2010]
[Categorie: Politica ]
[Fonte: A sud]
[Autore: ]
Social network:                e decine d'altri attraverso addthis.com Tutti gli altri con: addthis.com 

Spazio autogestito Google


Contributo al dibattito: alternative alla crisi della modernità/colonialità
Nuove teorie sono in fase di elaborazione per dare vita a nuovi movimenti. In questa prospettiva si rende necessario dare impulso a un nuovo processo di dibattito e studio, che si fondi sulla pluralità e interculturalità degli approci. Seguendo questa linea proponiamo di seguito quattro nuclei di dibattito, aperti e in permanente ridefinizione.

tiamo assistendo ad una totale crisi della civiltà egemonica (quella dell’unità tra “modernità-colonialismo). Tutte le forme di vita del pianeta, non solo quelle umane, sono in pericolo e per questo si rende urgente lo sviluppo di alternative, a partire dal rafforzamento di esperienze e proposte sociali in costruzione, per chiarire le nuove prospettive, i nuovi orizzonti di significato e i nuovi paradigmi interculturali, in queste contenute potenzialmente o attivamente.

Nuove teorie sono in fase di elaborazione per dare vita a nuovi movimenti. In questa prospettiva si rende necessario dare impulso a un nuovo processo di dibattito e studio, che si fondi sulla pluralità e interculturalità degli approci. Seguendo questa linea proponiamo di seguito quattro nuclei di dibattito, aperti e in permanente ridefinizione.

Primo nucleo: crisi della cultura egemonica

Più di 6000 culture e 500 milioni di persone continuano a resistere allo scontro con la modernità-colonizzazione-capitalismo-eurocentrismo; non si tratta di un’unica area di dominazione, relativa al mondo del lavoro/capitale/classi sociali, bensì di una molteplicità di aree contemporaneamente: delle cosmovisioni, dei sessi, dell’immaginario, delle forme di autorità e della relazione con la Madre Terra. Si trattava e si tratta di molto di più: l’imposizione di una matrice civilizzatrice che soggioga la diversità di molte altre. Queste altre voci non sono state ascoltate per lungo tempo, fino a quando, nel nuovo secolo, convergono in questo approcio a differenti livelli, con diversi movimenti sociali, come quello ambientalista, delle donne e dei diritti umani, tra gli altri.

Si rende necessaria una interpretazione integrale che permetta di comprendere la complessità, l’intreccio, la gravità e la profondità di tante crisi simultanee. Si rende urgente caratterizzare adeguatamente la simultanea gravità e sovrapposizione nel tempo della catastrofe ambientale e climatica e dei fallimenti dell’ONU per contenerle; della carestia alimentare simultanea a speculazioni di eccessi di alimenti nella borsa (comodities); della crisi energetica con un capitalismo malato e dipendente dagli idrocarburi che a volte aggrava sugli impatti degli agrocombustibili; dell’esclusione sociale e della disoccupazione strutturale permanente; della gigantesca bolla speculativa e finanziaria che subordina e altera i processi produttivi; della privatizzazione delle scienze tecnologiche che con i transgenici, assieme all’invasione sviluppatrice delle industrie estrattive e i megaprogetti e le privatizzazioni dell’acqua, del sottosuolo, dei boschi, che contaminano e pongono in pericolo tutte le forme di vita; degli Stati Nazioni monoculturali dominati dalle transnazionali del libero mercato che criminalizzano l’esercizio dei diritti collettivi dei popoli e delle comunità, occultati e acuiti da nuove forme di razzismo e conflitti religiosi.

Non si tratta unicamente di una crisi speculativa o economica, di un modello di produzione o del solo capitalismo. Se si ammette il carattere sistemico e integrale di tante crisi simultanee, allora ci si accorge che queste crisi si muovono su terreni molto più profondi di quello puramente economico. È necessario mettere in questione la modernità nel suo complesso, con i suoi grandi miti di origine, come il “mercato”, lo “Stato” e lo “sviluppo”, tutti basati sulla “ragione” strumentale.

Si tratta di mettere in discussione il mito dello Stato uninazionale, che ha permesso il perseverare del conolonialismo del potere, anche dopo la decolonizzazione; il mito dello “sviluppo” e della crescita illimitata del dominio della natura; il mito dell’omogeneità (e non della diversità) culturale come “forza”. Si tratta di aprire la questione del perché le esperienze o proposte cosiddette socialiste, in tutte le loro varianti, non hanno saputo superare questi miti fondatori della modernità-colonizzazione e sono affondati nella loro matrici essenziali.

Partendo dalla prospettiva della crisi della cultura egemonica, possiamo avanzare nel dialogo e nel mutuo arricchimento di paradigmi alternativi, che vertono  sul concetto essenziale della convivenza umana e di tutte le altre forme di vita. È all’interno di questo dibattito che i popoli indigeni segnalano che sono passati da più di 500 anni di resistneza e di protesta, a una nuova tappa di proposta e di ricostruzione di alternative di civiltà per affrontare la crisi della modernità/colonialità. In questa direzione è fondamentale il dialogo e l’inter-apprendimento tra questi movimenti dei popoli originari con approci simili o convergenti provenienti da altri movimenti sociali che ritengono che, non solo un “altro mondo” (omogeneo), ma che “altri mondi” (diversi) siano possibili; e possibili non solo per il dibattito filosofico (che costituisce un contributo) , ma anche, e soprattutto, a partire dall’apprendimento delle lotte, delle resistenze ed emergenze sociali concrete e dalle loro costruzioni teoriche.

Apertura e convergenza non solo tra paradigmi e matrici di civiltà che hanno resistito e continuano a resistere nella storia (violenta) della modernità occidentale capitalista e coloniale; ma anche il dialogo con la diversità di orizzonti nella costruzione, che si fonda sugli stessi obiettivi di trasformazione e, soprattutto, mutazione sociale profonda, già che la parola “rivoluzione” limitata alla sfera del potere ( e della “real politik”) risulta ormai insufficiente. Rendere possibile l’unità tra coloro che si pongono le stesse domande, anche se le risposte continuano ad essere differenti; e per tanto continuare a mirare alla costruzione di nuove teorie per nuovi movimenti, di unità nella diversità.

Secondo nucleo: demercificazione della vita

Assistiamo adun’autentica catastrofe socio ambientale ed è necessario districarsi nel capire perché sia tanto difficile uscirne, quali siano i suoi punti chiave e le basi per poterla fermare e creare prospettive di trasformazione. Non si tratta semplicemente di un cambiamento climatico; questo non è “naturale” e nemmeno si tratta solo di un semplice “cambiamento”. Si tratta, piuttosto, di una catastrofe inarrestabile e simultanea, di siccità, inondazioni, sparizione di ghiacciai e molteplici ecosistemi, pioggie acide, inquinamento urbano, acque con metalli pesanti, transgenici che alterano germoplasmi. E sono i paesi in coda allo “sviluppo” le sue prime vittime, come nel caso del Perù, terzo nel ranking dei disastri globali. Una catastrofe della vita, evidente e visibile, che questo “sistema”, o il potere di questa modernità, non desidera fermare, anzi, all’interno di questa situazione, già delirante, vengono addirittura pianificate nuove “opportunità di commercio”, come quella di semi transgenici resistenti all’ecatombe climatica.

Si tratta della disputa e invasione di territori, specialmente dei popoli e delle comunità, per lo sviluppo e l’estrazione; stiamo parlando dell’invasione della miniera che lascia senz’acqua l’agricoltura; dei pozzi petroliferi che irrorano i loro rifiuti tossici nei fiumi; o degli agrocombustibili per alimentare le automobili nonostante la carestia umana. Tutti questi drammi non possono essere ridotti all’”ingegneria sociale” della cosiddetta “sostenibilità ambientale” che convive senza mettere in discussione le logiche del mercato, dello sviluppo e la frenesia consumista. Non scordiamo il pragmatismo di certe corporazioni “ambientaliste” di convivere con le mafie petrolifere globali. Bisogna riflettere sulla necessità di cambiare per evitare il ripetersi delle tragedie dell’inferno radioattivo di Chernobil in Russia, le migliaia di rifugiati per la diga delle tre gole in Cina, o la distruzione delle Ande, Pantanal e Amazonia della IIRSA; tutti “sviluppi” promossi sotto progetti cosiddetti ”socialisti” in Russia, Cina e Brasile.

Non possono essere ridotti a “costi sociali”, impatti o manifestazioni di una crescita inesauribile che si compensano o minimizzano con modelli matematici di “sostenibilità”. Non si può continuare a consentire gli approci tradizionali della “crescita inarrestabile” delle forze produttive. Nemmeno ridurre queste questioni  allo stretto piano giuridico della “proprietà privata” contro la “statalizzazione”, senza mettere in dubbio lo sviluppo produttivo che mercifica l’acqua, i boschi, l’ossigeno, tutta la vita, sia in nome del dio mercato o della ragione di stato.

Se il surriscaldamento globale significa convertire tutto in mercanzia, non ci può essere raffreddamento senza una demercificazione della vita. Si tratta di porre dei limiti o dei freni a comprare-vendere-prvatizzare acqua, sottosuolo, boschi, colline… la vita intera. Bisogna riflettere su come rendere possibile il controllo sociale sui beni comuni, tanto quelli della sfera della natura, quanto quelli appartenenti alla sfera della conoscenza. Qui entrano in gioco con un ruolo fondamentale le proposte dei popoli originari, che includono i concetti e ali approci sulla Madre Terra, distinta dalle “risorse naturali”, la genitorialità della vita; alimenta la madre terra e lascia che lei ti nutra, l’unità tra natura-società-cultura, i territori concepiti come totalità vivente di unità tra mezzanino-sottosuolo-montagne e fonte di storia-identità-orgoglio-cosmovisione, lontani a quelli di parte-chacra-terra. Queste prospettive devono essere recuperate e riformulate anche all’interno degli spazi cittadini occupati dai migranti e affettati dallo “sviluppo” dell’inquinamento e dalla marginalità urbana.

Ciò che è appena stato detto appartiene a quello che i popoli indigeni chiamano Buen Vivir, inteso come armonia con la natura, come pace ed equilibrio sociale. La vita con acqua pulita, non con mercurio; l’aria pura e la tranquillità senza l’inferno delle automotrici, l’orgoglio. L’identità, l’autostima e la felicità di sopravvivere usando/conservando (a volte) il bosco o le montagne, senza finire spinti nelle città sature e nelle loro elemosine dei “programmi sociali”. Qualità di vita, senza consumismo e spreco. Vivir Bien e non “vivere meglio”, nel senso di tenere più e più oggetti, anche se sono inutili, senza l’incantesimo e la dipendenza dalla cultura dello shopping che maschera depredazione, inquinamento, surriscaldamento e suicidio planetario.

Vivir Bien implica il diritto a pensare, a selezionare e a decidere in autonomia. Le Nazioni Unite ora lo riconoscono nei diritti “all’autosviluppo”. Analizzare e dire sì ai computer, ai pannelli solari ma non alle monoculture e ai transgenici; Sì alla scuola ma non al monolinguismo e all’acculturazione, bensì alle identità e all’interculturalità. Sì alla posta sanitaria ma non al parto “occidentale” ma il verticale e in famiglia. Scoprire pesticidi naturali e non essere corrotti da quelli chimici del petroglio. L’orgoglio di utilizzare e rivalorizzare le migliaia di piante medicinali e alimenti nativi e non la confusione e la sottomissione ai farmaci e la frustrazione di non poterseli permettere. Rifiutare i trattati di libero commercio, siano degli Stati Uniti, dell’Europa o della Cina, che impongono chiusire giuridiche sovrannazionali per mantenere eternamente la privatizzazione e la mercificazione della vita, che inizia nella miniera, segue nei transgenici e termina nella biopirateria. Tutto questo è Buen Vivir/Vivir Bien e i popoli e le comunità continueranno a lottare, una volta e un’altra ancora, come da cinque secoli a questa parte, per poter resistere come popoli con diritto alla differenza.

Terzo nucleo: deconolizzazione del potere

Va notato che a questo “(mal)sviluppo” dà impulso non solo il capitale transnazionale, ma anche le tecnocrazie, gli intellettuali, i sacerdoti, i giornalisti, i settori medi e anche molti poveri che credono fermamente nei miti dello Stato Nazione, nonostante siano sempre meno nazionali e pubblici e sempre più privatizzati. Questo ci conduce ad una terza questione che verte sulla colonizzazione e decolonizzazione del potere.

Esiste una connessione tra la privatizzazione della vita e la privatizzazione del potere. La colonizzazione attuale del potere è eredità dell’imposizione eurocentrica di una sola forma di stato, quella dello Stato-Nazione. L’idea di una nazione –una cultura che ha le sue origini con il genocidio delle 6000 culture del mondo che ancora resistono, e che continua con il timore della diversità linguistica e culturale, l’orientamento verso l’omogeneità e la stigmatizzazione degli “altri”, di chi sente e vive in maniera differente, diverso da “quella” che è la supposta nazione vincitrice. Si può vedere in tutte le parti e anche nel Cile del supposto miracolo economico, con la stigmatizzazione dei Mapuche, che prolunga la carneficina militare per “unificare la nazione” e continua nella sua criminalizzazione di chi difende il suo diritto alla differenza insieme alla sua acqua e ai suoi boschi davanti alle industrie della carta.

Gli Stati Nazione teoricamente agiscono in sfere del bene comune, ma nella realtà sono strumenti dell’asta, del saccheggio e della privatizzazione della Madre Terra. È necessario dibattere di come sostituire l’espropriazione ai popoli e alle comunità, il controllo dei beni naturali da parte degli Stati che, basandosi sull’”interesse pubblico”, impongono la privatizzazione, commercializzazione, contaminazione e distruzione della vita.

Non è possibile nazionalizzare o socializzare l’economia mantenendo la verticalità del sistema di potere.  Se si riconosce la diversità biologica assieme alla diversità culturale, si deve assumere anche la demo-diversità o diversità di forme di democrazia, che non si limiti a includere i meccanismi rappresentativi (classici e consumati), ma anche la democrazia diretta e ancora di più: la democrazia e l’autogoverno comunitario.  Diciamo “comunità” non solo per gli Ayllus che si ricostruiscono nel Qullasuyu (Bolivia), ma anche per comunità urbane come Villa El Salvador (Perù), che spingono con lo spirito andino del “lavoro comune”, o per i Quilombolas che difendono la loro autonomia di discendenza africana, o la comunità di Valdisusa in Italia che lotta per il Vivir Bien contro la modernità neoliberale.

È vitale che, davanti alla crescente privatizzazione del potere, immaginiamo la socializzazione (redistribuzione) del potere, non solo nella sua “cattura”, o peggio, la sua semplice amministrazione tecnocratica. Identificare le proposte e le strategie che consentano di superare questa tradizione coloniale, di un sistema di autorità basato sull’esclusione dei diritti collettivi dei popoli e delle comunità. Recuperare le lezioni che lasciano in una direzione trasformatrice le proposte e gli insegnamenti pratici di possedere diritti collettivi/dei popoli, oltre a quelli individuali/cittadini o la cosiddetta “cittadinanza etnica”. La diversità di fonti di diritto (leggi, giustizia) che suppone di rispettare il Derecho Mayor, il Diritto Consuetudinario o il Diritto Naturale (incluso nella Costituzione dell’Ecuador). La sfida e l’apporto degli Stati Plurinazionali, con i loro parlamenti, sistemi di giustizia, servizi, tutto altrettanto plurinazionale (che si trasformano in Bolivia). Le alternative delle varie forme di autonomia, autogoverno e autodeterminazione dei popoli originari/indigeni riconosciute dalle Nazioni Unite con la Dichiarazione del 2007; e del peculiare comandare-obbedendo dei popoli indigeni, ben distinto dalla dittatura dei rappresentanti “democratici”.

Quarto nucleo: saperi alternativi

Tanto lo statalismo privatista come lo sviluppo sono divenuti parte del sentimento comune delle cose sotto il neoliberalismo e il definitivo “fine della storia” che implica la messa in discussione di questo “senso comune”, questa forma “naturale” di conoscere, di sognare, di immaginare, di ricordare. Si tratta di dibattere una quarta questione relativa i Saperi e Soggettività Alternative. Decifrare il mistero o la magia del perché lo sviluppo, lo Stato e il mercato continuino ad apparire come proposte scientifiche e moderne.

Non è casuale che, in precedenza le chiese, e ora la scienza siano state e continuino ad essere garanzia di legittimità. I popoli, le comunità e i movimenti, considerati come eretici nei tempi passati e come barbari ai giorni nostri, sembrano sempre opposti allo sviluppo e per tanto vengono stigmatizzati, quando è lo sviluppo che si oppone a questi e alla sopravvivenza umana. Il razzismo coloniale non solo ha imposto l’invenzione delle cosiddette “razze” e la divisione tra “razze” superiori e inferiori che ne è derivata, ma ha anche lasciato altre forme più sottili di razzismo che sono giunte fino ad oggi. Come il razzismo ontologico ed epistemologico. I popoli originari e i discendenti africani possono costituire motivo di folcrore, misericordia, fino ad essere tollerati come portavoci di proteste o reclami, incluso l’essere teoricamente “uguali”, ma difficilmente sono ammessi come generatori o ispiratori di valori, conoscenza e teorie filosofiche alternative o politicamente rispettabili.

Esiste una connessione tra mercantilismo e privatismo con queste scienze riduzioniste, positiviste, omologatrici, antropocentriche, dove gli “altri” sono gli “oggetti” di studio dei “soggetti” eurocentrici e della ragione strumentalizzatrice. Infatti, si distingue tra le lingue europee e i “dialetti” originari; tra l’arte dotta e l’artigianato; tra la medicina scientifica e il folclore curativo degli indios, Amazig o Quilombolas. Impossibile parlare di filosofia e sistemi politici e pensare che i Batwa in Africa o gli Aymar possano detenere lo stesso livello di legittimità di quelli occidentali.

Si rende necessario mettere in discussione l’espansione delle tecno-scienze e il post industrialismo, con i transgenici, la biopirateria e la nanotecnologia che, in nome della sacra “proprietà intellettuale” non solo modifica i geni, le cellule, senza controllo né vigilanza sociale e ambientale, ma anche che si appropria e privatizza conoscenze ancestrali dei popoli e delle sue applicazioni per i nuovi alimenti, medicine e introiti industriali. Si tratta della mercificazione della scienza e della conoscenza che solitamente non viene indirizzata a dare priorità o ad essere impiegata per lottare contro le malattie  tropicali e dell’ alto tasso di mortalità di coloro che abitano sulle montagne o ai tropici.

Bisogna riflettere sul perché le scoperte utili per l’umanità non vengano condivise o restino inaccessibili come conseguenza dei brevetti e dei diritti d’autore, come nei gravi casi dell’AIDS e del cancro. Tuttavia sono innumerevoli gli alimenti, i medicinali, gli introiti industriali e le conoscenze che i popoli e le comunità hanno apportato e continuano ad apportare all’umanità e che oggi si cerca di “liberalizzare” a beneficio della biopirateria.

Sorge la necessità di sviluppare altre forme di conoscenza che riconducano all’unità tra l’umano e il naturale, permettano il loro controllo e la vigilanza sociale e la redistribuzione equa dei loro benefici. La demercificazione della comunicazione e dell’intercomunicazione, della cultura, della musica e della altre arti e servizi pubblici dell’educazione, della sanità. Bisogna recuperare tutti i beni e i servizi necessari per la vit, renderli disponibili per l’uso comune di tutti, con una responsabilità condivisa e sotto controllo sociale. “Tutto, per tutti” come risuonava il grido zapatista dalla selva Lacandona del Messico.

Per concludere, come abbiamo iniziato, reiteriamo che si renda indispensabile un processo di costruzione di paradigmi sociali alternativi alla crisi della civiltà egemonica e gli impatti della sua modernità-colonialismo eurocentrici, creare spazi di incontro e inter-apprendimento culturale tra le esperienze dei popoli, delle comunità, delle nazioni senza Stato e dei movimenti sociali.

Terminiamo per il momento queste riflessioni, ma il dibattito prosegue. Sia per resistere, sia per persistere nel vortice e nell’incertezza delle sfide in questa grande crisi di civiltà; mentre il vecchio resiste per non sopperire e il nuovo non viene lasciato fiorire, abbiamo bisogno di tornare, ancora una volta, a ricordare le emozioni e la sapienza, anche se non esattamente con le stesse parole, delle nonne e dei nonni. “Non ho più pazienza per tollerare tutto questo”, come ha detto Micaela Bastidas che, assieme al suo compagno Tùpac Amaru, ha lottato, nel 1780, contro il genocidio europeo. O con le parole dei Maya: “hanno tagliato i nostri frutti, i nostri steli, le nostre foglie…ma non le nostre radici e torneremo”; o dei Mapuche che, nonostante il lungo martirio,non smettono di lasciarci il loro insegnamento, sotto il grido di “Marry Chewehu!”…”dieci volte ci hanno colpito, dieci volte noi li affronteremo”.


Roberto Espinoza CAOI

Traduzione di Anna Bianchi

PARTECIPA ALLA CAMPAGNA "IO FACCIO LA MIA PARTE"

 

Per il nostro Emporio... clicca!CLICCA PER IL NOSTRO EMPORIO

 

Spazio autogestito Google