c «Così l’inquinamento modifica il genoma» - 02/03/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 02/03/2010]
[Categorie: Scienza ]
[Fonte: Terra]
[Autore: Valerio Ceva Grimaldi ]
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«Così l’inquinamento modifica il genoma»
INTERVISTA. Parla Ernesto Burgio, coordinatore nazionale del Comitato scientifico dell’Isde: «L’esposizione continua ad agenti nocivi come metalli pesanti e particolato ultrafine crea le premesse alle mutazioni che daranno origine ai tumori».

Ernesto Burgio, coordinatore del Comitato scientifico di Isde Italia, l’associazione dei medici per l’ambiente affiliata all’International Society of Doctors for the Environment, gira da anni il Paese per illustrare le nuove frontiere del dna, ed in particolare il fondamento scientifico delle modifiche del nostro programma genetico. Secondo molti scienziati sono alcuni fattori esogeni (inquinanti chimici, virus, radiazioni ionizzanti) a determinare una sorta di stress genetico, che nel giro di alcuni anni o decenni si traduce in vere e proprie mutazioni. Piuttosto che spendere ingenti somme nel settore sanitario solo per le cure, i medici e ricercatori dell’Isde indicano dunque da decenni la strada obbligata della prevenzione primaria: meglio evitare di costruire un impianto inquinante e inutile piuttosto che ignorarne le ricadute ambientali ed esser poi costretti a curare chi ne subisce gli effetti nocivi. In altre parole: meglio cominciare a combattere le cause dei tumori invece di puntare esclusivamente su cure costose e troppo spesso tardive. Terra ha incontrato Burgioo a Napoli. Nella giornata in cui molti Comuni hanno bloccato la circolazione alle auto per provare a contrastare i livelli di inquinamento atmosferico, le sue parole appaiono come un appello accorato alla comunità scientifica e alla società verso un’evoluzione culturale dell’approccio al legame tra salute ed ambiente.

Lo schema delle mutazioni casuali del dna è ancora valido?
Siamo dell’idea che quantomeno debba essere aggiornato. Il punto chiave è: queste mutazioni sono stocastiche (cioè casuali, legate a una sorta di usura del dna, imprevedibili e non prevenibili) o sono il prodotto di uno stress epigenetico prolungato che poi si trasforma in danno genetico? In questo secondo caso la prevenzione primaria diventa fondamentale. E allora sì che il cancro diventa una malattia prevenibile. Numerosi fattori ambientali, infatti, possono agire su diverse componenti della cellula: sui recettori, sull’assetto epigenetico del dna (sul “software”, per così dire) o sulla stessa sequenza-base del dna, modificandola. Il particolato ultrafine, i metalli pesanti provocano una sorta di stress genetico, che dopo mesi o anni, attraverso un processo complesso e sistemico, provoca la trasformazione delle cellule e dei tessuti interessati. Il cancro deve essere visto come il prodotto finale di un lungo percorso di condizionamento e trasformazione della segnaletica intercellulare. Vari gruppi di ricerca studiano da anni per comprendere in che modo i vari inquinanti possano cambiare il micro-ambiente uterino, interferendo sull’assetto epigenetico dei tessuti fetali (in pratica sulla programmazione fetale di organi e tessuti) nei primi mesi dello sviluppo.

Qual è il concetto di stress epigenetico?
La storia nasce trent’anni fa quando il professor Tomatis, uno dei più famosi oncologi europei, che per oltre dieci anni ha diretto la Iarc (l’Agenzia europea di ricerca sul cancro) e che per quasi 20 anni è stato il direttore scientifico di Isde, studiando alcuni casi drammatici di bambine che si erano ammalate di cancro a causa dell’esposizione delle loro madri al Des (un farmaco dotato di attività estrogenica) capì che all’origine del cancro poteva anche esserci una modifica specifica del genoma che non si configurava come mutazione casuale del dna, ma appunto come “marcatura” specifica, trasmissibile da una generazione all’altra. Allora non si sapeva ancora nulla sull’epigenoma. Oggi sappiamo che il dna non è una molecola semplice, una sequenza lineare come si pensava allora. Sappiamo che si tratta di un network incredibilmente complesso e sofisticato di molecole: la parte più dinamica, che si chiama appunto epigenoma, viene continuamente indotta, modulata, trasformata dall’ambiente. L’esposizione continua del nostro dna a un inquinamento sempre più capillare, e in particolare a metalli pesanti, particolato ultrafine, ai cosiddetti distruttori endocrini, modella quest’epigenoma nel lungo periodo e crea le premesse alle mutazioni genetiche che danno poi i tumori. Questo è un dato scientifico sempre più dimostrato e diventa sempre più la base di una nuova visione della cancerogenesi, e più in generale del modo in cui si vengono a determinare le malattie, a partire dall’embrione. Diventa così fondamentale ragionare in termini di prevenzione, da un lato riducendo l’inquinamento ambientale, soprattutto nelle nostre città, e dall’altro limitando l’esposizione delle mamme e del feto.

Qual è la situazione dei tumori dell’infanzia?
Un bambino su 5-600 nel mondo occidentale va incontro a una patologia neoplastica: è la seconda causa di morte nell’infanzia dopo gli incidenti, la prima per patologia nei bambini. Non si tratta quindi più di una patologia “rara”. Nel 2004 la rivista Lancet ha pubblicato una prima panoramica di questi dati dimostrando come in tutta Europa vi sia un incremento annuo dell’1,2% dei tumori infantili, con un incremento ancora maggiore nel primo anno d’età. Nel 2006 l’European Journal of Cancer ha pubblicato un numero monografico che è andato più a fondo: ha registrato un incremento annuo dell’1,5-2% per alcune forme neoplastiche e in particolare per i linfomi non Hodgkin e per alcuni sarcomi maligni, considerati da alcuni studiosi come malattie “sentinella”, sintomatiche di un’esposizione ambientale ad alcuni grandi impianti, come gli inceneritori. Ma anche le leucemie e i tumori del cervello sono in costante aumento. Alcuni studi epidemiologici hanno considerato tra i principali fattori ambientali implicati anche i campi elettromagnetici legati all’uso dei cellulari. E in Italia i dati sono ancora più preoccupanti. Nel nostro paese abbiamo 175 casi/anno per milione di abitanti, rispetto ai 158 degli Usa e ai 140 della media europea. Ma soprattutto abbiamo un incremento annuo del 3% nel primo anno d’età. è importante capire il significato di questo dato: non è tanto l’esposizione del bambino il problema, bensì quella delle loro madri, e talvolta anche dei padri (e se sono danneggiati i gameti si può anche temere in una propagazione transgenerazionale del cancro). Ancora più significativo il dato sull’incremento dei linfomi: se in Europa è dello 0,9%, in Italia è addirittura del 4,6 annuo! Alcuni ricercatori dell’Environmental Health Institute hanno calcolato che nei primi 2 anni di età abbiamo un incremento 8 volte superiore a quello atteso. E questo aumento non può che riflettere l’esposizione genitoriale a numerosissimi fattori ambientali cancerogeni o pro-cancerogeni.

Ci sono già degli studi che collegano i fattori ambientali alle modificazioni del dna?
Nel 2005 alcuni biochimici hanno disegnato una sorta di processo in cui dei tags, delle segnature epigenetiche in alcuni punti chiave del genoma sotto stress perché esposto a cancerogeni, finiscono per diventare le marcature che aprono la strada alle vere e proprie mutazioni genetiche. Ecco il punto chiave: se noi possiamo dimostrare che le marcature epigenetiche prodotte da uno stress ambientale avvengono negli stessi “punti caldi” in cui, dopo mesi o anni, si vengono a determinare le mutazioni genetiche, è evidente che il processo di cancerogenesi si configura come una sorta di work in progress reattivoadattativo. Molte di queste modifiche avvengono quando un tessuto è esposto ad agenti inquinanti. E appare sempre più chiaro che a degenerare non sono le cellule adulte ma soprattutto le cellule staminali dei vari tessuti, che sono esposte a una continua sollecitazione, perché costrette a riparare lesioni e danni. Un simile stress epigenetico è stato documentato a seguito di una esposizione protratta a dosi infinitesimali di metalli pesanti come il nichel e il cromo. è proprio questa esposizione continua a quantità minimali ad aprire la strada alle alterazioni genetiche. è stato dimostrato che, nei luoghi in cui c’è stata una esposizione prolungata a sostanze tossiche, genotossiche o epi-genotossiche come nel caso di Seveso (diossina), questo stress si traduce con grande frequenza, anche in soggetti apparentemente normali, in specifiche lesioni cromosomiche, le traslocazioni, che sono tipiche di leucemie e linfomi. Anche questo dato deve essere compreso: significa che le traslocazioni rappresentano un tentativo delle cellule di reagire all’inquinamento, di correre ai ripari mediante modifiche del proprio assetto genetico o cromosomico che permettano loro di proliferare per sostituire le cellule danneggiate. Ma è evidente che se la situazione di inquinamento e stress genetico si protrae, la modifica può diventare definitiva e pericolosa.

La chiave è la prevenzione?
E’ giustissimo fare la prevenzione secondaria. Ma prima Tomatis, per decenni, e adesso noi cerchiamo di affermare con forza che la vera prevenzione è solo quella primaria. Ridurre l’esposizione delle mamme in gravidanza, dei bambini, del feto che attraverso la placenta può essere “bombardato” da centinaia di sostanze tossiche, dovrebbe essere la prima regola. Il vero problema è che tutte queste cose le mamme non le sanno. Per cui si continuano a vedere tutti questi bambini nei loro passeggini in giro per le città esposti al particolato fine, ai metalli pesanti, agli idrocarburi aromatici, al benzene come se tutto questo fosse un determinante secondario della loro salute. Tutto questo è una follia che va avanti da decenni. I metalli pesanti, il particolato ultrafine, che vengono prodotti dal traffico veicolare, dagli inceneritori e da altri grandi impianti vengono spesso sottovalutati nei loro effetti. Le sostanze che vengono prodotte da qualche parte devono pur andare a finire: nell’ambiente, in ultima analisi nell’atmosfera (venendo respirate) e nella catena alimentare (e quindi ingerite). è questo inquinamento di base che va combattuto.

Un esempio concreto?
L’inceneritore di rifiuti, che produce un’enorme quantità di particolato ultrafine e di metalli pesanti, nonché di diossine. I nuovi impianti, cosiddetti termovalorizzatori, riescono a bloccare una parte di quest’inquinamento, soprattutto le grandi molecole e in parte le diossine, ma riducono solo in minima parte l’immissione in ambiente di metalli pesanti e particolato ultrafine, che sono gli inquinanti in assoluto più pericolosi. I filtri non possono fermare l’immissione di un particolato a 0,1 micron. Per cui, se è vero che non si può evitare di costruire impianti necessari, come le centrali termoelettriche, bisognerebbe almeno cercare di farle funzionare con combustibili meno tossici come il gas naturale, piuttosto che a carbone. Per quanto riguarda gli inceneritori, non ha davvero più alcun senso bruciare milioni di tonnellate di materiali preziosi, riciclabili e riutilizzabili, per produrre e immettere in ambiente sostanze cancerogene. Come diceva il nostro indimenticabile direttore scientifico, il professor Tomatis, “le generazioni future non ce lo perdoneranno”.

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