c Che fine ha fatto Tuvalu? - 10/02/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 10/02/2010]
[Categorie: Sostenibilità ]
[Fonte: climalteranti]
[Autore: Elisabetta Mutto Accordi]
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Che fine ha fatto Tuvalu?

A Copenhagen è andata male, a Copenhagen è andata bene, a Copenhagen è andata così così.
Mentre la comunità scientifica, il mondo della politica, delle lobby e delle organizzazioni non governative portano avanti il dibattito sul futuro del pianeta, emerge un dato di fatto: l’opinione pubblica dei cambiamenti climatici si è già dimenticata.
Si è dimenticata dell’orso polare, dei giorni in cui seguiva con curiosità e attesa le trattative del Summit mondiale e di quando si è indignata di fronte a quello che da molti è stato definito “il fallimento dei capi di stato”.
Perché?

I motivi sono diversi e meriterebbero un’analisi approfondita delle dinamiche sociali ma di certo una delle cause va ricondotta al fatto che da quel 19 dicembre, data di chiusura della COP 15, sono nate e morte migliaia di nuove notizie a cui appassionarsi.
L’opinione pubblica si è lasciata travolgere ancora una volta dal torrente in piena del mondo dell’informazione e passo dopo passo, partendo da Sodarno è arrivata ad Haiti, ben distante da quelle isole Tuvalu che per tanti giorni sono state motivo di commozione.
Non si tratta più quindi di discutere solo di cosa siano i cambiamenti climatici, dove si manifestino, come colpiscano il pianeta e quale sarà la loro evoluzione. Si tratta di strutturare una riflessione che predisponga azioni competenti per informare in modo più adeguato la società, renderla più consapevole dei processi di mutamento in corso e metterla nella condizione di prendere una posizione che si possa tradurre in richieste di azione per il mondo della politica, dal locale al nazionale.
A evidenziare questo bisogno è anche l’ultimo aggiornamento all’Eurobarometro.

Mentre la statistica relativa ai 27 paesi della UE ci dice che i maggiori problemi a livello mondiale sono la povertà, al primo posto e i cambiamenti climatici, al secondo. I dati relativi al nostro bel Paese ci spiegano che gli italiani sono in linea con il resto dell’Europa solo per quanto concerne la povertà. Infatti al secondo posto viene messa la paura che scoppi una nuova pandemia, al terzo il terrorismo, al quarto la crisi economica e solo al quinto i cambiamenti climatici.
Tuttavia i numeri ci dicono anche che i cambiamenti climatici sono considerati un problema molto serio dal 63% del campione, in linea per altro con la UE a 27, ma è diffuso il punto di vista di chi crede che non sia stato fatto abbastanza per combatterli né dalle industrie (72%), né dagli stessi cittadini (68%), né dai Governi (67%), né dagli enti locali (64%), né dall’Unione Europea (58%).

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Senza scomodare Freud e la psicologia, possiamo dire che normalmente noi dimentichiamo le cose che non riteniamo importanti oppure accantoniamo quelle che risultano scomode. Per i cambiamenti climatici possiamo considerare entrambe le ipotesi: non interessano e vengono accantonati tra i pensieri difficili da gestire.
Ed infatti le statistiche di Observa, centro di ricerca indipendente che promuove la riflessione e il dibattito sui rapporti tra scienza e società, ci dicono che “Rispetto al 2007, i cittadini convinti che il clima stia effettivamente cambiando sono diminuiti dal 90% al 71,7%” ed è passata dal 4,1 al 9,2 la percentuale di coloro che non sanno.
Quindi?

Quindi va adottato un approccio olistico che miri ad un vero e proprio cambiamento culturale che interrompa la banalizzazione secondo la quale è colpa solo dei giornalisti che sono imprecisi o solo della comunità scientifica che parla un linguaggio troppo difficile.

Uno step dovrebbe riguardare senza dubbio il mondo dei media. Come il medico rispetta il giuramento di Ippocrate, come si esige il massimo del rigore dagli scienziati, va evitato che gli organi di stampa possano svilire il lavoro di anni di ricerca con articoli non corretti sbattuti in prima pagina.
Va vista quindi in modo positivo la Proposta di legge che mira a riformare il mondo del giornalismo e che ha ripreso l’iter di discussione in Commissione Cultura alla Camera dei Deputati a fine gennaio.

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Altro passo dovrebbe essere fatto dall’opinione pubblica abituata ormai a seguire le notizie dei tg e dei giornali come una telenovela. Andrebbe invece dato all’informazione un nuovo valore, completamente diverso, non come qualcosa da consumare ma piuttosto da utilizzare, una risorsa vera propria, una fonte di conoscenza, come viene detto ad esempio in questo documento dell’European Environment Agency (ad es. a pag.32).
Non ultimo in termine di importanza è il cambiamento che dovrebbe compiere il mondo della ricerca per essere più incisivo nella divulgazione e per conquistare quindi la fiducia della società e coinvolgerla. Consapevole dei limiti del mercato dei media, dove gli stessi giornalisti sono costretti ad adeguarsi alle regole di un sistema che richiede notizie sempre fresche, che non permette una specializzazione e che obbliga a lavorare ad un ritmo molto veloce, dovrebbe darsi un ruolo nuovo di vero agevolatore così da permettere una migliore diffusione e dunque una migliore comprensione.

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