c La tirannia delle mode - 21/01/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 21/01/2010]
[Categorie: Sostenibilità ]
[Fonte: AamTerranuova - n. 246 gennaio 2010]
[Autore: Charty Durrant]
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La tirannia delle mode
L’esorbitante prezzo sociale e ambientale della attuale passione per le griffe

Da sempre l’uomo ha una passione per ornamenti e bardature. Fin dalle epoche più antiche ha usato pigmenti per decorare il proprio corpo e indumenti , gioielli e acconciature per distinguere un gruppo tribale da un altro. E’ un istinto innato. L’estro artistico e la ritualità associati ad ornamenti e orpelli sono tratti connaturati nel genere umano, una testimonianza della sua capacità creativa.
E oggi che l’intero pianeta sembra avere perso ogni equilibrio, niente come la moda sembra avere un ruolo importante nei confronti dell’attuale crisi ambientale e finanziaria. La smodata propensione all’acquisto e la fissazione per le sofisticherie ci hanno trascinato in un campo minato. Stiamo procedendo sul filo del rasoio. Oggi, la nostra identità è definita più da quello che indossiamo che da quello che siamo. Il nostro aspetto esteriore non è mai stato così importante. L’ossessione per la celebrità e il nostro egocentrismo sono i sintomi di una nuova nevrosi culturale. Così la stragrande maggioranza dell’umanità passa il tempo libero facendo acquisti, ovvero acquistando articoli alla moda, che considera essenziali per la propria esistenza. Ma qual è il prezzo di questo comportamento?

“Modanoressici”
Avendo alle spalle vent’anni di esperienza quale redattore per riviste di moda, per me non è stato facile ammettere che questo settore apparentemente innocuo è in realtà uno dei principali responsabili dell’attuale corsa verso il baratro. Ed è alla base di molti dei mali che affliggono la nostra società. Qualsiasi problematica sociale o ambientale voi prendiate in considerazione, scoprirete che le sue cause rimandano in qualche modo all’industria della moda. La moda è sempre stata una sorta di cartina tornasole dello spirito e degli uomini del tempo.
L’esempio più scontato è quello della minigonna e delle magliette psichedeliche che, negli anni ’60, sono diventati chiari simboli della liberazione dei costumi e della voglia di vivere di quel periodo. Fedele al suo ruolo di specchio della società. Oggi la moda riflette le aberrazioni culturali dei nostri tempi. Molte sfilate ci rimandano le immagini di alcune storture sociali, per esempio, quando mettono in passerella capi d’abbigliamento minuscoli e succinti o al contrario grottescamente gonfiati e sovradimensionati.
E’ interessante notare con quasi tutti gli stilisti oggi volgano lo sguardo al passato in cerca di ispirazione. Ciò dimostra che viviamo in un epoca che guarda al futuro con profonda apprensione. Come mai prima d’ora, gran parte del mondo occidentale è stretto nella morsa di un illusorio miraggio, di una vacua “bolla” in cui vive profondamente immerso. Le icone del mondo moderno non sono più i poeti, gli statisti, né le rock star: sono le modelle e i modelli.
Questa aberrazione non riguarda solo l’abbigliamento. Arriva a intaccare perfino il nostro corpo. Disturbi alimentari, autolesionismo, di smorfia sono diventati malattie endemiche – e sintomi – dell’era moderna. Da quando gli effetti della crisi economica hanno cominciato a farsi sentire, certi accaniti consumatori sono arrivati perfino a digiunare, pur di potersi permettere quel certo capo di abbigliamento che tanto desiderano. Gli psicologi hanno coniato un nuovo termine per definire questi patologici consumatori: “fashionrexic” (letteralmente: modanoressici, ossia “anoressici per via della moda”).
Siamo ossessionati dal nostro aspetto esteriore. Con la complicità di tecnologie sempre più sofisticate, oggi è sempre più difficile dire se denti, seno o labbra siano “originali” e autentici; se l’abito che indosso sia un Prada o un capo acquistato in un grande centro commerciale; se ho 24 o 40 anni. La spiccata dedizione al nostro ego è il tratto peculiare di questa fase della storia umana.
Non importa se uno stile effettivamente ci piace o meno. Siamo spinti ad adeguarci, ad allinearci con le tendenze del momento per non apparire fuori moda. Il mercato è saturo e quindi cercano di allettarci, affascinarci, abbagliarci e disorientarci con la scusa della “scelta”.
La monocultura del consumo

L’ironia sta nel fatto che. In effetti come consumatori non abbiamo una grande libertà di scelta. Eccezion fatta per qualche minimo dettaglio nel design o nella tonalità dei colori, gran parte dei negozi, dei caffè, così come di abiti, soprabiti, autoveicoli, e giornali alla moda hanno tutti lo stesso aspetto: c’è una sorta di monocultura del consumo.
Viviamo in una delle epoche più conformiste di tutti i tempi. Basta dare uno sguardo alle vetrine in una città qualsiasi, per capire quanto conformista, conformato e praticamente identico è il nostro look in ogni parte del mondo. La combinazione tra globalizzazione, internet, e l’ormai predominante “fast fashion” ha fatto si che, escluse poche rare eccezioni, ormai sembriamo tutti uguali, qualsiasi sia il nostro paese d’appartenenza.
Quello della “fast fashion” è un fenomeno relativamente nuovo. E’ solo dagli anni ’90, infatti, che Primark, Zara e simili si sono imposte sul mercato e che le riviste femminili hanno iniziato a spingere per un rinnovo settimanale del guardaroba, supportate da produzioni realizzate e distribuite in tempi record, a volte nell’arco di pochi giorni. Il fenomeno ha preso piede e il settore ora va fiero di essere riuscito a “democratizzare” la moda, rendendo i capi d’abbigliamento alla portata di tutti.
Produzioni di massa e sfruttamento della manodopera esistono da molto prima degli anni ’60, ma la crescente domanda di capi di vestiario e di un design sempre più sofisticato, sta sottoponendo ora gli operatori del settore a nuove forme di pressione. Un tempo, la produzione di un capo richiedeva almeno un giorno di lavoro, ora si pretende che siano realizzati di tutto punto in una sola ora.
Via via che le vendite aumentano, i marchi e i produttori di questa nuova moda fanno fronte comune per costringere gli operatori del settore a lavorare a ritmi sempre più serrati. Arruolano crescenti schiere di manodopera a basso costo, costringendola a lavorare in condizioni sempre peggiori, e con sempre meno diritti Basilari. Il lavoro minorile è diventato una soluzione molto efficace per soddisfare l’inarrestabile brama di prodotti dei consumatori. E poiché i soldi arrivano a palate, nessuno è in vena di interrogarsi sull’eticità di pratiche simili.
La moda attuale è un miscuglio di ingredienti apparentemente incompatibili, associati a fattori quali una rapida obsolescenza congenita, il timore di non essere all’altezza e il desiderio di sedurre. Comodità, tepore e gusti personali sono passati in secondo piano. Via via che questa “smania per l’ultima moda” si fa più pervasiva, la moda in generale appare sempre più distante da discriminanti come stile, eleganza ed espressione della propria personalità. E’ un venefico mezzo di comunicazione che mostra come le donne dovrebbero vestire e apparire. Ed il culto per le celebrità, cioè la tendenza ad imitare il modo di vestire di personaggi famosi, non fa che dare ulteriore forza a questo nuovo singolare paradigma.
L’immagine che abbiamo di noi stessi ne esce distorta, ed è innegabile che la nostra psiche collettiva ne sta soffrendo profondamente. Fino a trent’anni fa, divorzi, pornografia, pedofilia, sesso tra minorenni,tossicodipendenze, così come i casi di suicidio tra gli adolescenti erano fenomeni rari. Oggi sono diventati la norma. I risultati emersi da Good Childhood, un’inchiesta sull’infanzia patrocinata dall’ONG britannica The Children Society, confermano questo stato di malessere diffuso: i bambini di oggi sono più “ansiosi ed irrequieti” e la loro vita è più “difficile” di quella dei bambini in un tempo. Tutto ciò, conclude il rapporto, è dovuto all’ossessionante ricerca di un successo materiale da parte degli adulti.

Festino mordi e fuggi
Non siamo cattivi genitori: ci siamo fatti incantare dal fascino del glamour. Continuando a credere in quest’illusione, in pratica ci stiamo lentamente facendo fuori con le nostre mani. Avremo anche un bell’aspetto esteriore, ma dentro non stiamo affatto bene.
Alla base di gran parte del malessere dell’attuale mondo occidentale c’è l’interminabile “festino mordi e fuggi” della società consumistica. I siti di shopping online aperti 24 ore su 24 e le nuove sofisticatissime forme di marketing, hanno fatto dell’abbigliamento alla moda un passatempo internazionale. Nessuno è immune alle tecniche manipolatorie dell’industria pubblicitaria. A pubblicità riesce a instillare in ognuno di noi bisogni artificiali e questo potere affiora con particolare evidenza proprio nelle formule promozionali usate per vendere, in grado di intimidirci e ammaliarci allo stesso tempo.
Lo psicologi inglese Oliver James, nel suo libro Affluenza: Il virus che minaccia la classe media, sostiene che esiste una stretta correlazione tra la tendenza a crescere dell’opulenza e il conseguente incremento della sperequazione materiale. Più una società è ricca e iniqua, tanto più insoddisfatti sono i suoi cittadini. Ne siamo stati testimoni proprio negli ultimi anni, con il boom del “mercato del lusso”. Abbiamo visto crescere la “febbre” per l’acquisto di prodotti di lusso, e marchi come Louis Vitton, Prada e Versace lanciare articoli ancora più sbalorditivamente costosi.
L’anno scorso, a Natale, David Beckham ha regalato alla moglie una borsetta di Hermes da 84.000 euro, tutta incastonata di diamanti. Il gesto ha subito scatenato una corsa alle imitazioni (molto più abbordabili) che hanno invaso le vetrine dei negozi. Grazie ai “progressi” della tecnologia, i produttori oggi sono in grado di replicare un articolo griffato praticamente in tempo reale. Le collezioni di fast fashion cambiano ogni sei settimane e non più ogni stagione. Lo scopo è di attirare più spesso gli acquirenti nei negozi. Chi lavora per il settore ha una grande abilità ed esperienza , prova ne è che ormai non riusciamo più a distinguere l’originale dal contraffatto. L’unica differenza, spesso, sta in un minimo dettaglio ornamentale, nell’etichetta e ovviamente nel prezzo.

L’impatto sull’ambiente
E’ impossibile sfuggire al reale impatto esercitato dalla moda sul nostro ambiente e sulla nostra economia. Gran parte del cotone impregnato di pesticidi prodotto negli USA viene esportato in Cina (o in altri Paesi con una manodopera a basso costo), dove viene filato, tessuto, tagliato e ricucito secondo i dettami della moda. Dopodiché viene spedito per via aerea nel resto del mondo. La Cina è diventato il principale esportatore di fast fashion , con una quota del 30% delle esportazioni mondiali (dati: UN Commodity Trade Statistics Database).
Nel suo libro “I viaggi di una t-shirt nell’economia globale” (Apogeo, Milano 2006), Pietra Rivoli, docente alla Georgetown University di affari internazionali e questioni sociali, scrive che ogni anno gli statunitensi acquistano circa un miliardo di indumenti importati dalla Cina.
L’inquinamento prodotto dall’industria della moda in Africa, India e Brasile è da tempo documentato e continua a destare forti preoccupazioni. Una serie di studi hanno rivelato che la grave contaminazione delle risorse idriche e del suolo che attanaglia la città messicana di Tehuacàn è stata provocata dal massiccio uso di permanganato di potassio, un potente candeggiante usato per invecchiare artificiosamente la tela dei blue-jeans.
Una cosa è certa: la nostra ossessione per la moda sta letteralmente distruggendo il Pianeta: I processi di lavorazione e tintura di filati e stoffe richiedono enormi quantità d’acqua e hanno un impatto devastante sull’ecosistema.
A “Be the Ch’ange”, una conferenza tenutasi a Londra nel 2008, la scrittrice Maude Barlow – attivamente impegnata sul fronte ecologista – ha confermato che la Cina ha contaminato l’80% dei suoi bacini idrici a causa delle sostanze chimiche e delle tinture altamente tossiche e dissipato le sue risorse idriche per produrre capi d’abbigliamento destinati all’esportazione in occidente. In ogni fase del suo ciclo di vita, un qualsiasi indumento produce un impatto sull’ambiente e sull’occupazione. In media, ha una vita “commerciale” di appena tre mesi per via della subdola pressione esercitata dalle mode e dall’absolescenza programmata dei capi d’abbigliamento.
Ma il risvolto più sconvolgente di questa situazione è che ogni anno gettiamo nei cassonetti oltre un milione di tonnellate di vestiti. Per la gran parte finiscono in discarica, dove, insieme a tinture e candeggianti industriali, concorrono alla formazione di un percolato tossico che si infiltra nel terreno e nei bacini idrici, nonché del metano che si libera in atmosfera.
L’inquinamento generato dal comparto della moda si ripercuote a vari livelli sul contesto sociale e ambientale. Le fonti sono molteplici : dalle insostenibili tecniche di coltivazione, all’uso incontrollato di pesticidi e tinture tossiche, all’esorbitante consumo e inquinamento delle riserve idrivhje. Ciò concorre a rendere il dibattito su quest’industria ancora più complesso. E’ stato stimato, per esempio che la coltivazione del cotone necessario per produrre un solo paio di jeans richiede 800 litri d’acqua.

La crisi come opportunità
La grave batosta globale della contrazione del credito e della crisi finanziaria, ha portato tutti i nodi al pettine. Dopo l’ubriacatura consumistica degli ultimi anni, adesso, seppur lentamente, si registra un ritorno all’autenticità anche nel campo dell’abbigliamento. Sono sempre più numerosi non solo i negozi di abbigliamento biologico ed equosolidale, ma anche le botteghe dei vestiti usati. L’acuirsi della crisi economica sta facendo emergere risposte molto creative, grazie alla rinata capacità di riesaminare, rivedere e rivalutare i nostri assiomi. Finalmente, stiamo assistendo a un’inversione di rotta – per quanto involontaria – e a una correzione delle consuete pratiche insostenibili.
Tutti i nostri sistemi si sono frantumati in un solo colpo. Il capitalismo globale ha fallito su tutti i fronti. Invece di sposare le tristi e apocalittiche visioni proposte da gran parte della stampa mondiale, molti, saggiamente, salutano il crollo dell’economia mondiale come una grande opportunità per rivedere a fondo tutti gli aspetti del nostro modo di vivere, compresi quelli produttivi, commerciali, progettuali, estetici, e quelli legati alle nostre abitudini quotidiane.
E’ come se l’umanità si fosse appena risvegliata dall’incubo di cinquant’anni di frenetici e smodati eccessi. Mortificati e storditi dai postumi della sbornia, dobbiamo ora guardare in faccia la realtà e renderci conto di quanto ci è costato tutto questo forsennato gozzovigliare.
La contrazione del credito è arrivata appena in tempo. La critica situazione globale ci impone ora di fare appello a tutta la nostra creatività e a tutto il nostro buonsenso. L’industria della moda – o meglio, il suo zoccolo duro – è ancora molto malata, ma al suo interno lavorano molte menti illuminate che stanno prendendo le giuste misure per riequilibrare il sistema. Molto però dipende da noi consumatori. Dobbiamo pretendere che tutti i nostri indumenti siano ottenuti con pratiche sostenibili e che l’adozione di pratiche eco-etiche diventi una priorità per tutti i produttori.
Dobbiamo rivalutare tutte quelle soluzioni che puntano su principi quali: il rispetto dei diritti, l’equità, la giustizia universale, la realizzazione di prodotti di buna fattura e fatti per resistere, come quelli di un tempo. In India e Africa, molte ONG hanno deciso di collaborare direttamente con cooperative di donne nate per sostenere in loco le famiglie e le attività tradizionali, per produrre manufatti di buona qualità da vendere a prezzi ragionevoli.

La sfida sta nel riuscire a trovare un modo per conciliare le polarità estreme della nostra epoca, ossia: la globalizzazione, con tutte le sue negative ramificazioni finanziarie ed etiche, e la nuova presa di coscienza collettiva che vede il mondo come un’unica entità, un Mondo Unico. La globalizzazione ha storpiato questo concetto di universalità bistrattandolo e abusandone per i propri fini. Abbiamo male interpretato le potenzialità della nostra capacità di connetterci con il resto del mondo, con il risultato che oggi siamo più slegati e sconnessi che mai. Per questo, dobbiamo imparare a esprimere la nostra personalità e ad interagire con il mondo circostante con integrità e autenticità.
Il vero antidoto consiste nell’adottare comportamenti deliberatamente votati all’essenzialità. Un modo di vivere ed essere più semplice fuori e ricco dentro. Un modo di essere in cui il nostro spirito più autentico e vitale sia strettamente connesso e coerente con ogni aspetto della nostra esistenza.

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