c Fred Pearce, incontro con un reporter ecologico - 20/01/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 20/01/2010]
[Categorie: Sostenibilità ]
[Fonte: Puralanadivetro]
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Fred Pearce, incontro con un reporter ecologico

Molti di noi portano al dito una fede, ma pochi sanno che per produrla servono circa dieci grammi d’oro proveniente dal Sud Africa.
Li’ i minatori estraggono in media due tonnellate di roccia a 3 km di profondita’, nel sottosuolo per ogni singola fede. Poi la roccia verra’ trattata col mercurio per estrarre l’oro.
E’ una delle tante storie che racconta il giornalista londinese Fred Pearce in “Confessioni di un eco peccatore” (Edizioni Ambiente). Oggetti d’uso quotidiano, cosi’ come il cibo che giunge sulle nostre tavole, hanno spesso alle spalle una storia fatta di migliaia di Km e della fatica di persone, talvolta donne o bambini, mal pagati e sfruttati.
A parlarcene e’ stato lo stesso Fred Pearce di passaggio a Torino e proveniente da Pordenone Legge, rigorosamente in treno, mezzo decisamente più ecologico dell’auto, ma, in particolare in Italia, non molto puntuale.
E così Pearce e’ arrivato al Circolo dei Lettori di Torino trafelato e con un bagaglio notevole di ore di viaggio sulle spalle per incontrare il suo pubblico e Luca Mercalli, il giornalista metereologo che su Rai 3 è ospite fisso di “Che tempo che fa” e che ha siglato la prefazione del suo volume.
Collaboratore dell’Indipendent, del Guardian e del London Daily Telegraph, nonche’ consulente ambientale del New Scientist, Pearce ha percorso il mondo in lungo e in largo per ricostruire la storia degli oggetti che tutti noi in Occidente possediamo e usiamo regolarmente: da quando sono ancora delle materie prime fino a quando diventano dei rifiuti da smaltire.
E quello di Pierce e’ stato un viaggio che ha rivelato diverse sorprese e che, in sintesi, ha condotto a due conclusioni. La prima: tutti noi possiamo essere piu’ consapevoli dei nostri atti e con piccole accortezze quotidiane, lasciare un’impronta meno invasiva sulla Terra “progettando una vita più sostenibile e felice per tutti”, come auspica Mercalli nella prefazione al volume. La seconda è che molti comportamenti considerati ecologici non sono poi così encomiabili: come il commercio equo solidale o il riciclaggio di alcuni materiali.
Un esempio per tutti? Per essere riciclati i nostri pc vengono smontati da bambini indiani, che maneggiano acidi nocivi per la loro salute. Forse i computer passati di moda potrebbero essere donati alle charity o alle scuole. Se poi pensiamo al caffe’ equo solidale comprato dai coltivatori ad un dollaro viene riveduto a 12, di equo non c’e’ manco il prezzo.
Il libro di Pearce non e’ un pamphlet polemico, con il decalogo di cosa fare o cosa non fare. E’ piu’ che altro un faro che illumina, da una capo all’altro del globo, situazioni spesso inquietanti, ma anche controverse.
“Mi sono recato in Asia per studiare la coltivazione del cotone finalizzata alla produzione di vestiti. Tutto è nato perché volevo capire di quale cotone siano fatti i miei pantaloni – spiega Pearce – Per cercare l’origine dei miei indumenti sono arrivato fino in Bangladesh, dove le donne lavorano in condizioni pessime per produrre cio’ che indossiamo“. Verrebbe allora da controllare ogni volta il cartellino dei capi d’abbigliamento, prima di acquistarne uno nuovo. La tentazione sarebbe quella di bandire dal nostro guardaroba gli indumenti provenienti da quell’angolo di Asia.
“No, non e’ cosi’ semplice – puntualizza l’autore - Il risvolto sociale ha un suo peso. Quelle donne anzi mi incoraggiavano ad acquistare i pantaloni da loro cuciti. Il motivo? Il fatto di poter lavorare, seppur mal pagate, rappresentava per loro l’emancipazione. Il lavoro aveva permesso loro di fuggire dai loro villaggi, dove spesso si erano lasciate alle spalle situazioni ancora peggiori, di abuso“.
Piuttosto, nell’inseguire le radici della produzione di cotone, Pearce narra di un caso ben peggiore, quello dell’Uzbekistan. “Nel lago di Aral si e’ consumato un vero e proprio disastro ecologico. Per irrigare le coltivazioni di cotone sono stati deviati i corsi d’acqua, con la conseguenza che quello specchio d’acqua salata e’ pressoche’ scomparso. E in quella zona ci sono enormi relitti d’imbarcazioni ormai in secca”.
E tornando al Bangladesh, da li’ per esempio proviene la maggior parte dei gamberetti che si consumano nel mondo. “Ogni sabato mangiavo gamberi al curry, il mio piatto preferito. Dopo aver scoperto la storia che sta dietro a quel piatto, non ne ho più toccato uno”. A controllare la produzione e l’esportazione di 50 mila tonnellate di gamberi all’anno e’ la mafia locale, gente priva di scrupoli che non esita a uccidere chi non sta alle regole.
Diverso il caso dei fagiolini del Kenya. “Li mangio con serenita’ tutto l’inverno. Il fatto che con dei fagiolini alcune comunita’ lontane da me migliaia di km possano vestirsi decentemente, avere una vera casa, una tv, mi ha convinto a essere meno critico verso i fagiolini africani che mangiamo a Londra”. E a chi gli chiede spiegazioni sull’inquinamento prodotto dai voli aerei, che trasportano i cibi dall’Africa, Pearce risponde: “Sono d’accordo sul fatto che si debba ridurre l’emissione della CO2, ma non si puo’ demandare questo compito ai contadini del terzo mondo. Siamo noi che dobbiamo ridurre le emissioni, magari ricorrendo un po’ meno a spostamenti in auto o scegliendo fonti di energia alternative al petrolio”.
In fondo anche ogni copia del libro di Pearce, rigorosamente stampata su carta riciclata, ha prodotto un Kg di anidride carbonica ed e’ costata la vita a qualche albero.
Se non possiamo fare a meno di inquinare, almeno facciamolo per una buona causa.

Prefazione di Luca Mercalli
Mi è piaciuto il viaggio di Fred Pearce alla scoperta delle lunghe e
complesse strade che compiono i nostri acquisti e i nostri rifiuti. In
una quarantina d’anni ho visto anch’io cambiare molte cose dalla mia
finestra di osservazione alla periferia di Torino, un po’ come quella
di Londra.
Quando avevo dieci anni mia nonna mi mandava a comprare le verdure
di fronte a casa, in un grande orto urbano che serviva i mercati
rionali. La famiglia di venditori di verdure lo vendette alla fine
degli anni Ottanta, e oggi al suo posto c’è un palazzo di dieci piani.
E poco più in là, dove c’era un ottocentesco istituto scolastico per la
sperimentazione agricola, incaricato di capire come si fa a rendere più
produttivo il suolo, nel 1990 venne costruito un grande stadio per i
mondiali di calcio, una gigantesca e costosa opera giudicata
indispensabile e avveniristica, che proprio ora che scrivo, dopo solo
19 anni di utilizzo, è stata abbattuta per essere “rinnovata”.
Tonnellate di cemento e ferro che vanno ad aggiungersi a quei grandi
cumuli che si incontrano tra le pagine che vi accingete a leggere.



Pearce segue cibi e oggetti, dalla miniera alla discarica, al fine
di fare un bilancio della sua impronta ecologica e sociale. Sono quasi
sempre d’accordo con lui e provo qui a riassumere rapidamente il mio
bilancio ecologico seguendo lo schema dei capitoli che seguono, usando
come base la mia attuale abitazione extraurbana a 25 chilometri da
Torino.
In casa ho pochi oggetti esotici, e non mi interessa averne: non ho
zanne di elefante né pellicce di castoro. Porto la fede al dito e sono
responsabile delle due tonnellate di detriti rocciosi scavati in Sud
Africa per estrarre l’oro con cui è stata fabbricata.

Prodotti del mercato equo e solidale: talvolta li acquisto e sono
d’accordo con la filosofia che ne sta alla base, ma rifuggo da quelli
che non sono peculiari di certi paesi. Cacao sì, curry sì, ma è assurdo
che compri fagioli in Sud America quando crescono qui da me, saranno
pure solidali ma hanno consumato troppa energia per essere trasportati.
In questo dissento dai fagiolini kenioti molto cari a Pearce. Egli
vuole nobilmente aiutare gli agricoltori africani e suggerisce di
continuare ad acquistare a Londra i fagiolini kenioti che arrivano in
aereo a Natale, sostenendo che le emissioni derivanti dal loro
trasporto siano accettabili. Ma io ritengo che a Natale si possano
mangiare con soddisfazione patate, cavoli, broccoli e porri. I
fagiolini li mangio a giugno. I nostri amici kenioti possono coltivare
ciò che noi non abbiamo e – come si faceva un tempo con le spezie – ciò
che non ha bisogno di un aereo per giungere fresco sulla nostra tavola
ma può permettersi un sostenibile viaggio in nave di quindici giorni.



Anche io prediligo i prodotti locali: il pane lo faccio in casa
quando posso oppure lo compro dal mio fornaio di montagna a due passi
da casa, dove trovo anche il formaggio dei pastori locali, i mirtilli
quando ci sono, le castagne e il miele. Le fragole a gennaio sono
vietate dalla mia coscienza, ma mia moglie ne coltiva di magnifiche sul
terrazzo, ottime da maggio ad agosto, insieme a ribes e lamponi
nell’orto.



Partecipo all’esaurimento delle riserve ittiche mondiali con qualche
scatoletta di tonno al mese, ma non alimento la mafia dei gamberi
surgelati perché non ne consumo mai. Odio l’olio di palma negli
alimenti e consulto attentamente le etichette dei prodotti alimentari:
appena vedo scritto “olio vegetale” mi rifiuto di acquistare il
prodotto, a difesa delle mie arterie e delle foreste tropicali. Le
banane mi piacciono, ma le mangio come quando ero bambino: una volta o
meno al mese, come regalo.



Confesso invece che non potrei rinunciare al cioccolato, ma è un
prodotto ad alta densità di materia e di piacere, lo si commerciava già
quattro secoli fa su bastimenti a vela e ne basta poco per essere
contenti.

Cerco di usare e riusare i miei abiti: di certo non ne acquisto 35
chilogrammi all’anno come la media inglese, e le mie magliette fanno
ben più di 25 lavaggi nella loro vita, in genere fino a sfilacciarsi
per usura. Se abbandono abiti è perché non ci entro più, non per futili
ragioni di moda. Scelgo sempre tagli classici, che reggono al tempo che
passa. Spero così di non contribuire eccessivamente alla
desertificazione del Mar d’Aral o allo sfruttamento del lavoro
nell’industria tessile asiatica.

Sto scrivendo su un computer Acer come quello dell’Autore, molto
probabilmente prodotto in Cina nel distretto di Suzhou: mi spiace di
contribuire alla devastazione della terra cinese, ma lo uso come mezzo
di lavoro, senza cambiarlo ogni pochi mesi solo per moda o perché è
uscito il modello nuovo! Quello vecchio l’ho portato ai miei amici
della Cooperativa Arcobaleno di Torino, che smontano e recuperano i
componenti senza farli bollire nell’acido come in India.

In casa abbiamo tutti mobili di recupero, giunti da cantine e vecchi
alloggi di nonni e parenti. Oltre che trasudare storia, evitano di
distruggere parte della foresta pluviale tramite il mercato nero del
legname di Zhangjiagang.

Detesto gli oggetti inutili, che a casa mia – nonostante ve ne siano
ancora troppi – non entrano più da anni. Evito dunque di alimentare
l’industria idiota e ambientalmente insostenibile della cinese Yiwu
“capitale mondiale del ciarpame”. Ho troppe cose più importanti da fare
che trastullarmi con il “babbo natale che suona il sassofono”: meglio
guardare le nuvole o leggere Seneca.

Riciclo le lattine di birra e le bottiglie di plastica. Nel mio
comune è attiva la raccolta differenziata porta a porta. So cosa vuol
dire lo smodato consumo di acqua: la zona montuosa dove abito d’estate
è arida ed esposta a sud, la cisterna per la raccolta dell’acqua
piovana che ho fatto installare non basta mai, e ad agosto è
tristemente vuota. Conscio del picco del petrolio e dei danni inflitti
alle regioni di estrazione, ho installato una caldaia a gas a
condensazione integrata da pannelli solari termici, e d’inverno lascio
la temperatura di base in casa a 16 °C, portandola a 20 nelle stanze
dove vivo di più tramite una efficiente stufa a legna a combustione
inversa.

Pearce consuma oltre 2500 metri cubi di gas all’anno, io quasi dieci
volte di meno. Ma in effetti lui ammette che la sua casa è un colabrodo
energetico, io ho fatto l’isolamento termico del tetto e ho messo i
vetri doppi basso emissivi (sui quali lui è scettico sostenendo che
l’alluminio dell’infisso consuma più di quanto il vetro camera renda,
ma non è così, perché l’alluminio un domani sarà riciclato; in ogni
caso io ho scelto il serramento in legno).

L’elettricità di casa mia, compresa quella che fa funzionare il pc
su cui sto scrivendo, è interamente prodotta da un impianto
fotovoltaico da 1,8 kW di potenza di picco: in un anno produco più di
quanto consumo. Pearce dice che la produzione di celle fotovoltaiche è
energeticamente sfavorevole: non è più così da tempo, attualmente
l’investimento energetico dei pannelli viene recuperato in due anni con
una vita produttiva di circa 30.

Capisco che non si possa essere informati e aggiornati su tutto, ma
questoè anche un monito: quelli affrontati da Pearce sono temi
complessi e in rapido divenire, l’importante è porsi le giuste domande
e andare a caccia delle giuste risposte, evidentemente variabili nel
tempo secondo i nuovi sviluppi tecnologici o i nuovi disastri ambientali.

Non riesco a fare a meno dell’auto come Pearce, ho una vecchia auto
a gasolio, Euro 2, ma con buona manutenzione dopo 350.000 chilometri mi
fa ancora 18 chilometri con un litro. Cambiarla sarebbe peggio: ci
sarebbe da metter in conto tutta l’energia e le materie prime per la
costruzione di una nuova auto che peserebbero troppo. Ho deciso dunque
che la porterò a fine vita, dovrà cadere il motore perché la cambi. Uso
spesso il treno per muovermi, anche se vedo che i calcoli sulle
emissioni per passeggero/chilometro sono spesso poco veritieri e vi
sono treni tutto fuorché ecologici, come quelli ad alta velocità, ai
quali mi oppongo optando per un miglioramento del servizio diffuso.



Da sempre ho avuto un orto a disposizione, ora i miei 200 metri
quadrati di terra che coltivo con mia moglie sono una miniera di
verdure ottime e a bassissimo impatto ambientale. I rifiuti organici
vengono in parte smaltiti dalle mie tre galline e in parte producono
compost per concimare. Sono d’accordo a esprimere ottimismo verso
l’agricoltura artigianale che in tutto il mondo dimostra di saper
integrarsi con le esigenze del territorio, come predica il mio amico
Carlin Petrini che a 70 chilometri da casa mia ha fondato Slow Food.
Però attenzione alle soluzioni troppo facili: l’agricoltura artigianale
e l’autoproduzione, da sole difficilmente potrebbero nutrire 7 miliardi
di umani affamati. I numeri sono numeri e le illusioni da giornalista
sono pericolose. Sono processi che necessitano di un grande apporto di
inventiva e di ricerca scientifica.

Non mi fa paura un’Italia con basso tasso di fecondità, mi fa paura
il contrario, un’Italia sovrappopolata, con 60 milioni di persone su
300.000 chilometri quadrati di territorio, in gran parte montuoso:
abbiamo solo 5000 metri quadrati di suolo a testa, meno di un campo da
calcio. Qui Pearce semplifica di nuovo eccessivamente, sottovaluta il
problema demografico ritenendo che ormai tutti i popoli stiano
diminuendo il loro tasso di fertilità e dopo un ulteriore aumento – si
ritiene a 9 miliardi per il 2050 – la popolazione mondiale andrà
naturalmente a declinare. In un mondo dove l’impronta ecologica supera
già oggi le potenzialità planetarie, l’ottimismo di Pearce è per me
spostato di un cinquantennio: vedremo cosa sarà restato allora delle
risorse del pianeta!

Ma in definitiva concordo con il contenuto di queste pagine che alla
fine sono costate un buon chilogrammo di anidride carbonica e qualche
albero per la carta, sia pur riciclata: la consapevolezza e la
responsabilità dei propri gesti sono gli strumenti più importanti per
tirar fuori dall’umanità la sua parte migliore, evitare le trappole che
si sta fabbricando da sé e viceversa progettare una vita più
sostenibile e felice per tutti.

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