c Indonesia: gli interessi economici annientano le foreste secolari - 28/10/2009 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 28/10/2009]
[Categorie: Sostenibilità ]
[Fonte: terranauta]
[Autore: Virginia Greco]
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Indonesia: gli interessi economici annientano le foreste secolari
Ogni anno in Indonesia centinaia di ettari di foresta scompaiono lasciando spazio a colture di acacia e palma da olio. Le conseguenze sono ingenti: perdita di biodiversità, aumento dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici, alterazione dello stile di vita di comunità indigene secolari. Nonostante ciò i governi locali (spesso corrotti), la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale continuano a investire nell’espansione delle industrie cartiere e di biocarburanti. Gli interessi economici sono troppo elevati per rinunciarvi.

Si è svolto in questi giorni a Buenos Aires il tredicesimo appuntamento del Congresso Mondiale delle Foreste, nel corso del quale un bilancio dello stato attuale del patrimonio boschivo sul pianeta è stato presentato e un nuovo piano di tutela discusso. Tale summit si svolge ogni sei anni (dal 1926) per volere della FAO, organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e a parteciparvi sono vari enti e organismi interessati alla tematica.

La situazione è niente affatto che sotto controllo: ogni anno migliaia di ettari di boschi sono rasi al suolo per far spazio a culture o cementificazioni, con l’effetto che le preziose risorse di ossigeno del pianeta si stanno via via assottigliando e il naturale patrimonio di biodiversità sta andando in fumo.

“I danni agli ecosistemi forestali stanno portando conseguenze in tutto il mondo a causa dei cambiamenti climatici, della scarsità di acqua e della perdita della diversità biologica” spiega Jan Heino, vicedirettore generale del Dipartimento Foreste della FAO. “Il sistematico cambio d’uso delle terre, trasformate da boschi in suolo agricolo, contribuisce per circa un terzo alle emissioni di gas serra”.

Uno dei temi caldi di questa edizione del Congresso è la progressiva distruzione delle foreste pluviali in Indonesia, che lasciano spazio alle coltivazioni di acacia, da cui le industrie cartiere locali si alimentano, e a quelle di palma da olio, usata per la produzione di biocarburanti.

E’ infatti degli ultimi giorni la notizia della condanna ad 11 anni di detenzione di Azmun Jaafar, governatore del distretto di Pelalawan, nell’isola di Sumatra, il quale è stato accusato di corruzione per aver rilasciato permessi per la gestione (e la trasformazione) di terreni forestali. A quanto dichiarato dall’associazione ambientalista indonesiana Jikalahari, questa è tutt’altro che un’eccezione, anzi, una vera e propria piaga che rende impossibile la tutela del prezioso patrimonio forestale locale dalle minacce delle imprese.

Su 4.782 incendi segnalati dal satellite nei primi sei mesi del 2009, il 25% ha interessato aree controllate da APP/Sinar MasDurante gli anni ‘70 il Governo indonesiano dichiarò 140 milioni di ettari di terreno proprietà dello stato, ossia pose sotto il proprio controllo assoluto terreni (e relative risorse) che da sempre erano state gestite dalle comunità indigene locali. La cosa di per sé non costituirebbe un problema, potrebbe persino essere strumento di garanzia, se non fosse invece che i Governi indonesiani, interessati al profitto economico molto più che alla tutela dell’ambiente e ai diritti delle popolazioni locali, cedono sistematicamente il controllo di ampie aree forestali ai colossi dell’industria cartiera e dell’olio di palma.

Una volta ottenute le concessioni, le imprese appiccano (illegalmente, come ovvio) incendi nelle proprie regioni, in modo da rimuovere la foresta e liberare quindi terreni da reimpiegare per le piantagioni. L’associazione Eyes on the forests sostiene che sui 4.782 (!) incendi segnalati dal satellite nei primi sei mesi del 2009, il 25% abbia interessato aree controllate da uno dei maggiori gruppi industriali della carta e dei biocarburanti, ossia APP/Sinar Mas.

Le foreste pluviali dell’Indonesia crescono su un terreno coperto da torba, ossia un profondo strato di materiale organico composto per lo più da vegetali, ma anche cadaveri di insetti e altri animali, impregnato d’acqua. A causa dell’acidità dell’ambiente e della carenza di ossigeno a livello del suolo, tale materiale non riesce a decomporsi completamente, di conseguenza mantiene questo stato per secoli.

Se drenata, ossia essiccata, e lasciata a contatto diretto con l’aria, dalla torba si libera una cospicua quantità di anidride carbonica, che come noto non fa che aumentare l’effetto serra del pianeta.

Ne segue che il disboscamento in Indonesia, oltre a rappresentare una perdita di preziosa foresta primordiale, ricca in biodiversità floristica e faunistica, provochi un’ingente emissione di gas serra nell’atmosfera. Il paese detiene oggi il primato mondiale per la deforestazione ed è al quarto posto per le emissioni di anidride carbonica.

Le proteste e la resistenza da parte delle comunità indigene si sono fatte sentire più volte“La APP, il gruppo Sinar Mas e le loro consociate devono assumersi la responsabilità legale di ciò che avviene nelle loro concessioni”, afferma Susanto Kurniawan, rappresentante di Jikalahari, “esse devono fermare immediatamente la distruzione delle foreste torbiere, bloccare la costruzione di strade e canali di drenaggio della torba e combattere gli incendi”.

Difficile che ciò accada, visto che - come noto - sono le imprese stesse a provocare le fiamme che distruggono la foresta e asciugano il suolo, annullandone l’acidità e rendendolo quindi fertile e disponibile per le piantagioni.

Il fenomeno della corruzione dei poteri locali, degli accordi illeciti tra aziende e governanti, nonché il disboscamento abusivo, sono stati più volte denunciati da gruppi e associazioni ambientaliste indonesiane, come anche internazionali. Ma nulla di concreto è stato ottenuto.

Le proteste e la resistenza da parte delle comunità (in Indonesia si contano circa 50 milioni di indigeni, con 1000 lingue differenti), costrette per volere delle imprese ad abbandonare le terre da secoli popolate, si sono fatte sentire più volte. Ma spesso hanno portato a scontri diretti tra abitanti delle foreste e rappresentanti delle forze dell’ordine, sfociati nella repressione violenta, nella reclusione e anche uccisione di alcuni civili.

Ne è un esempio il villaggio di Tangun, nella penisola di Kampar - posta sul versante occidentale di Sumatra -, i cui abitanti si sono rifiutati di lasciare le proprie case per far spazio all’altro grande colosso dell’industria cartaria indonesiana (APRIL), il quale aveva ottenuto il controllo di 1000 ettari di foresta torbiera e intendeva tramutarlo in piantagioni di acacia. Ovviamente la questione non era stata per nulla discussa con le comunità locali, le quali da un giorno all’altro hanno visto comparire i bulldozer nelle proprie terre e sono stati intimati di abbandonarle. La strenua opposizione è stata vana: violenze sono state perpetrate da parte delle forze dell’ordine (che appoggiavano ovviamente l’azienda) spegnendo così la protesta.

Tra il 1996 e il 2007 la sola APP ha distrutto 177.000 ettari di forestaProprio in seguito a tale vicenda, l’associazione ambientalista indonesiana Kabut ha chiesto alle cartiere europee di interrompere gli acquisti di carta e cellulosa della APRIL in segno di protesta per cercare di arginare il fenomeno del disboscamento. L’Italia è il primo acquirente europeo di tale materia prima dall’Indonesia e, visto che APP e APRIL sono i due maggiori colossi industriali del luogo, è evidente come il nostro paese sostenga indirettamente il fenomeno.

Secondo i dati raccolti dalla FAO, tra il 1996 e il 2007 la sola APP ha distrutto 177.000 ettari di foresta, quantità che rappresenta il 65% di tutto il disboscamento registrato in Indonesia. Tra le aree coinvolte persino quella che è riconosciuta dall’UNESCO quale riserva della biosfera; dei 700.000 ettari originari ne resta solo un terzo, gli altri due sono già stati convertiti in piantagioni di acacia.

Il fenomeno non è in arresto, al contrario l’espansione è già stata annunciata da entrambe le imprese cartiere. E del resto non potrebbe essere diversamente data la loro manifesta sovra-capacità produttiva.

Esse si espansero rapidamente negli anni ‘90, passando da un milione di tonnellate di carta e cellulosa prodotta nel 1990 a 5,9 milioni di tonnellate annuali nel 2001. In contemporanea aumentò anche il consumo di carta in Indonesia, ma non con il medesimo tasso. Infatti se fino ad oggi la richiesta si è triplicata, la produzione è diventata ben sei volte maggiore. Essa è stata cioè orientata massicciamente all’esportazione.

Ciò che accade oggi, però, è che la capacità produttiva delle cartiere indonesiane sia così elevata da rendere insufficiente alla loro alimentazione la materia prima messa a disposizione dalle piantagioni già esistenti; esse continuano a procurarsi concessioni, in maniera più o meno lecita, per poter abbattere o bruciale nuovi ettari di foresta pluviale. L’espansione per altro non è limitata alla sola Indonesia: le imprese si stanno orientando all’espropriazione di territori anche in Cina e Cambogia.

La politica espansionistica delle imprese non solo non è ostacolata, ma è fortemente sostenuta dal governo indonesianoL’unica strategia ragionevole sarebbe quella di ridurre la capacità delle industrie cartarie, in modo da stabilire un equilibrio tra la materia prima disponibile tramite piantagioni già esistenti e produzione. Ma la fame di profitto dei colossi industriali non apre la strada a interventi di questo tipo. Si aggiunga a ciò che la APP negli ultimi anni ha accumulato debiti per svariati milioni di dollari che intende colmare accrescendo, invece che riducendo, l’esportazione di carta.

Quel che è peggio è che la politica espansionistica delle imprese non solo non è ostacolata, bensì fortemente sostenuta dal governo indonesiano. Per giunta anche la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale stanno investendo in tale operazione, premendo perché l’Indonesia, oltre che grande produttrice di carta e cellulosa, diventi la prima esportatrice mondiale di olio di palma, rubando il primato alla vicina Malesia (nella quale, ovviamente, si verificano analoghe tristi vicende di deforestazione).

La questione è dunque complessa e di notevole portata. Gli attori coinvolti sono vari: colossi industriali, governi locali corrotti ed organismi finanziari internazionali. Interessi di milioni di dollari si scontrano contro le proteste e l’opposizione di associazioni ambientaliste e comunità private del loro habitat e delle proprie risorse, le quali però ben poco possono ottenere da sole.

La strategia di intervento deve essere di natura sovranazionale, occorre chiamare alle proprie responsabilità tanto il Governo indonesiano quanto le imprese del mondo che acquistano materia prima dal paese, alimentando così il fenomeno. Ma del resto questa piaga non è peculiare dell’Indonesia: la deforestazione abusiva per interessi economici ed industriali è un fenomeno largamente diffuso in molte regioni del pianeta e porvi freno è una sfida enorme.

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