Conseguenze epistemologiche
dell'ipotesi Gaia
di
David Abram

Il testo che riportiamo è tratto dal libro:
L'ipotesi Gaia, Autori Vari, Red Edizioni

 


Il biologo Steve J. Gould, parlando sull'evoluzione davanti a un folto pubblico nella Steve University di New York a Stony Brook afferrò al volo una domanda giunta dal fondo della sala. 
"Potrebbe, per piacere," chiese una vocina, "potrebbe dire qualcosa sull'ipotesi Gaia?".
"Sono lieto della domanda," rispose Gould è proseguì: "Dopo ognuna delle ultime cinque conferenze che ho tenuto in varie università, almeno una persona ha fatto una domanda sull'ipotesi Gaia. Eppure nulla di quanto avevo detto nelle mie conferenze aveva a che fare con l'ipotesi Gaia! 
E' davvero interessante, evidentemente la gente ha molta curiosità al proposito. Eppure io personalmente non ci vedo nulla che non si insegni già nelle scuole superiori. Ovviamente l'atmosfera interagisce con la vita; il suo contenuto di ossigeno, per esempio, dipende in modo evidente dagli organismi viventi. 
Ma tutto ciò lo sappiamo da un pezzo. L'ipotesi Gaia non dice niente di nuovo, non propone alcun meccanismo nuovo. Non fa che mutare di metafora. Ma la metafora non è un meccanismo". 

E questa fu la sua parola definitiva in materia. Quello che Gould tralasciò di dire è che 'meccanismo', a sua volta, altro non è che una metafora. Una metafora certo importante, ma una metafora. In effetti l'intero processo della scienza moderna sembra nutrirsi di questa metafora. 

Nel 1644 il brillante filosofo francese Renato Cartesio scriveva: "Ho descritto la Terra e tutto il mondo visibile come se fosse una macchina". Nei suoi numerosi scritti, Cartesio, sviluppando un concetto già suggerito da altri filosofi, inaugurò la tradizione di pensiero che usiamo chiamare meccanicismo, ovvero, come la si chiamava a quei tempi, 'filosofia meccanica'. 

E la sua metafora ci accompagna ancor oggi. 

Ma guardiamo meglio come opera tale metafora su di noi. Quali sono i principi, espliciti o impliciti, che volenti o nolenti accettiamo quando accettiamo la premessa che il mondo visibile, e più specificamente la Terra, è compreso meglio quando lo interpretiamo come una macchina intricata e complessa? In primo luogo, la 'filosofia meccanica' suggerisce che la materia sia inesorabilmente inerte, senza vita o creatività. La grande utilità della metafora 'macchina' è che essa implica che il mondo materiale sia, almeno in via di principio, completamente prevedibile. 
Secondo tale metafora, il mondo materiale opera come qualsiasi macchina, cioè obbedendo a leggi fisse e invariabili, leggi che sono state introdotte nella macchina fin dall'inizio. Essa non possiede ne creatività ne spontaneità. Come un orologio, ticchetta in modo uniforme, fino a quando si rompe; pertanto il mondo materiale non è in grado di per se di alterare o variare le leggi che esso stesso incorpora. (Infatti nessuno di noi pensa che gli ingranaggi del suo orologio possano malignamente mutare, alterando l'ora. ) 
Le leggi del mondo meccanico sono fisse e immutabili, se riusciremo a scoprire tali leggi, saremo in grado di predire con certezza assoluta gli eventi del mondo. 0 per lo meno, cosi pensavano i filosofi 'meccanici' del secolo XVII. 
Ricordate che non è necessario essere una macchina per essere prevedibili. La maggior parte delle persone che conosco sono facilmente prevedibili. Gli altri animali e le piante sono, grosso modo, prevedibili. Per lo meno altrettanto di quanto lo siano le condizioni meteorologiche, ma Cartesio e i suoi seguaci scelsero di vedere le condizioni meteorologiche come completamente prevedibili, per principio. E questo perché il mondo materiale non era un organismo, era una macchina. Non aveva vita propria, né sensibilità, né un'energia intrinseca, né una propria forza motrice. 

Questo ci conduce al secondo principio implicito nella metafora meccanicistica, un principio meno evidente del precedente. Una macchina implica sempre qualcuno che l'abbia inventata, un costruttore, un creatore, non può assemblarsi da sola. Orologi, vetture, macchine a vapore non si costruiscono da sole dal nulla, se lo facessero, sarebbero delle entità davvero magiche e strane, e non potremmo attribuire loro la fissità, l'uniformità. E la prevedibilità che associamo a un oggetto rigorosamente meccanico.
Se vediamo la natura come una macchina, allora la vediamo tacitamente come qualcosa che è stato costruito, qualcosa che è stato fatto dall'esterno. Ciò risulta in modo evidente anche in gran parte del linguaggio che usiamo oggi nella nostra scienza: parliamo di comportamento che è stato 'programmato' nei geni degli animali, di informazione contenuta nei 'circuiti' del cervello. 
Ma chi ha scritto il programma? Chi ha costruito i circuiti del cervello'? Come meccanicisti, prendiamo queste metafore dai meccanismi che sono stati costruiti, che sono stati inventati e fabbricati dagli esseri umani, e poi facciamo finta che l'inventore o il costruttore (o il programmatore) non sia implicato nella metafora. Ma naturalmente lo è. Per forza fa parte della metafora, non si può avere una macchina senza qualcuno che l'abbia costruita. 
Vi sto chiedendo di incominciare a rendervi conto di come le metafore agiscano su di noi in modo implicito, inconsciamente. Tuttavia, quello che oggi resta per lo più inconscio era del tutto evidente nel secolo XVII. Se il mondo materiale assomiglia a una macchina, allora deve esser stato costruito dall'esterno. Un mondo meccanico implica un costruttore. E questa è precisamente la ragione per cui la filosofia meccanica e il meccanicismo trionfarono nei secoli XVII è XVIII, entrando a pieno titolo a far parte della struttura della scienza ufficiale. 

Il meccanicismo esercitò tanto ascendente non perché fosse un elemento necessario per la pratica scientifica, ma perché disarmava le obiezioni della Chiesa, l'istituzione sociale e politica che a quel tempo dominava la scena. La filosofia meccanica divenne un aspetto centrale della visione scientifica del mondo precisamente perché implicava l'esistenza di un costruttore (un divino inventore, se volete) e cosi rendeva possibile un'alleanza tra scienza e Chiesa. 
Noi moderni tendiamo a credere che l'adozione della metafora meccanicistica sia stata una condizione necessaria per la crescita e il fiorire della scienza sperimentale. Ma uno studio attento dei conflitti e dibattiti che hanno dato origine alla rivoluzione scientifica fa dubitare di tale assunto. Fino alla seconda metà del secolo XVII la tradizione della sperimentazione non era associata alla filosofia meccanicistica ma piuttosto a coloro che la praticavano, che l'avevano sviluppata e perfezionata, facendone un'arte, individui che avevano una concezione del mondo diversa da quella dei meccanicisti. 
Costoro infatti si definivano cultori della 'magia naturale', spesso addirittura 'alchimisti'. Essi vedevano il mondo materiale, anzi la stessa materia, come un luogo di forze sottili e immanenti, una rete dinamica di forze convergenti e contrastanti. Per Marsilio Ficino, un mago del Rinascimento, il grande traduttore delle opere di Platone in latino, per gli ermetici Giordano Bruno e Tommaso Campanella, per il geniale medico e alchimista Paracelso (il vero padre della medicina omeopatica), insomma per l'intera tradizione alchemica, la natura materiale era da concepirsi come qualcosa di vivo, come un complesso organismo vivente con cui il ricercatore, il mago o scienziato, entrava in rapporto. 
Il metodo sperimentale veniva sviluppato e affinato come un mezzo per giungere a tale relazione, come una pratica di dialogo tra se stessi e la natura animata. La sperimentazione era qui una forma di partecipazione, una tecnica di comunicazione o comunione che, quando aveva successo, effettuava una trasformazione non solo nella struttura del materiale sperimentato, ma anche nella struttura dello stesso sperimentatore'. Molte delle grandi scoperte che oggi associamo alla rivoluzione scientifica, addirittura molti degli stessi scienziati, si ispirarono a questa tradizione della magia naturale, una tradizione di partecipazione. 
Basterà ricordare Niccolò Copernico, che ha parlato del Sole come del Dio visibile, citando il leggendario mago egiziano Ermete Trismenegisto; o l'astronomo tedesco Johannes Keplero, la cui madre venne imprigionata e quasi condannata a morte dietro l'accusa di stregoneria sulla base di ciò che egli stesso aveva scritto; o William Gilbert, il grande studioso del magnetismo, che egli denominava coito, come se fosse stato un tipo di rapporto sessuale che la materia aveva con se stessa, e che, nel suo libro Magnete, parlò della Terra come di un corpo vivente dotato di un proprio impulso di autoconservazione. 
E infine dobbiamo naturalmente citare il filosofo inglese Francesco Bacone, il padre della scienza sperimentale, che vedeva il suo metodo scientifico come un perfezionamento della tradizione della magia naturale e che scrisse che, attraverso la sua opera, il termine magia, che "è stato a lungo usato in senso dispregiativo, recuperare nuovamente il suo antico e onorevole significato". 

Com'è accaduto che abbiamo dimenticato questo intimo legame tra scienza sperimentale e magia naturale? Come o perché questo legame con la magia è rimasto oscurato dalla tradizione successiva della scienza naturale? Perché il fisico matematico inglese Isaac Newton, che può esser definito uno dei massimi cultori della magia naturale, trovò necessario nascondere e addirittura negare pubblicamente le vaste ricerche alchemiche che lo impegnarono per tutta la vita? 

Evidentemente la Chiesa nei secoli XVI è XVII si sentiva minacciata da questa potente tradizione che sosteneva che il mondo materiale era 'una fonte di se stesso', una tradizione che parlava della Terra come di un essere vivente, una matrice vivente dei poteri spirituali. Un simile modo di esprimersi minacciava la dottrina teologica secondo cui la materia sarebbe passiva e inerte, è il regno materiale della natura segnato dal peccato, caduto, necessariamente separato dalla sua fonte divina. (Non mi riferisco qui, ovviamente, alla dottrina cristiana in generale, ma solo alla Chiesa istituzionalizzata dei secoli XVI è XVII, un periodo, ricordiamolo, che vide centinaia di migliaia, se non milioni, di individui, soprattutto donne, torturate e condannate a morte per stregoneria dalle autorità ecclesiastiche e civili).
La vera fonte di vita, secondo la Chiesa, era assolutamente esterna alla natura, esterna al mondo terrestre in cui siamo corporalmente immersi. Gli insegnamenti della magia naturale, dal canto loro, con il costante riferimento alle forze immanenti, implicavano che i miracoli divini di cui parlano il Vecchio e il Nuovo Testamento si potevano spiegare con principi sottili, insiti nella natura materiale. Questa era un'eresia bell'e buona poiché consentiva di mettere in dubbio la stessa esistenza e potenza di Dio al di fuori della Natura.
E' quindi chiaro che la sperimentazione naturale dove trovare una nuova retorica su cui basarsi, se voleva diventare una pratica rispettabile o addirittura lecita, doveva liberarsi delle sue origini che risentivano di una concezione del mondo magica e immanente e assumere un nuovo linguaggio, che fosse maggiormente in linea con la dottrina della Chiesa. 
Fu il meccanicismo o filosofia meccanicistica a fornire questo nuovo, e assai meno pericoloso, modo di esprimersi; perché, ripetiamolo, una macchina metaforica implica un costruttore metaforico, un creatore. Come la Chiesa, anche la filosofia meccanicistica aveva bisogno di una fede implicita in una fonte creativa del tutto esterna al mondo materiale e sensibile. E, come la Chiesa, la filosofia meccanicistica implicava una denigrazione della materia, non come decaduta, peccaminosa e demoniaca, ma come inerte, priva di vita, cioè morta. 
Ecco dunque qui una cosmologia perfetta da adottarsi da parte dello scienziato sperimentale, una cosmologia che gli permetteva di seguitare a indagare sulla natura senza timore di essere perseguitato o giustiziato per eresia. La metafora meccanica rese possibile un'alleanza tra scienza del secolo XVII e Chiesa. Fu così che il meccanicismo divenne un principio essenziale della concezione scientifica del mondo. 

Ora siamo in grado di comprendere il terzo e più importante principio implicito nella metafora meccanicistica. Le uniche vere macchine di cui abbiamo diretta esperienza sono quelle che sono state inventate dagli esseri umani. Quindi, se il mondo funziona veramente come una macchina complessa, allora colui che ha costruito la macchina deve essere molto simile a noi. Esiste, in altre parole, un isomorfismo implicito tra esseri umani e colui che costruì o programmò la vasta, complessa macchina del mondo. Dopo tutto, siamo fatti a sua immagine. Quindi, solo noi abbiamo un mandato celeste per manipolare il resto di questo mondo a nostro vantaggio. Se la Terra materiale è una macchina creata, tocca a noi, che siamo non solo creati, ma creatori a pieno titolo, scoprire come funzioni tale macchina. 
La metafora meccanicistica, quindi, non solo ci rende molto semplice intervenire sul mondo, poiché presenta la natura come un assemblaggio di parti che non hanno una relazione interna tra loro, un insieme di parti, cioè, che può essere facilmente smontato e poi riassemblato senza indebito danno; essa ci fornisce anche una giustificazione metafisica per qualsiasi manipolazione di tal fatto. Dal momento che le macchine sono inventate dagli uomini, la mente umana gode necessariamente di una posizione simile a quella di Dio, esterna al mondo meccanico che essa analizza. 
Questo è evidente ancor oggi. E' chiaramente illustrato da due titoli comparsi nel 1987 sul 'New Times' nello spazio di una settimana. Il primo, del 14 aprile, era: “I fisici vogliono creare un universo in laboratorio”. L'articolo riferisce il progresso del tentativo di Alan Guth e collaboratori al Massachusetts Institute of Technology di creare in laboratorio un universo dal nulla. Il secondo titolo, comparso tre giorni dopo, il 17 aprile, diceva: “Saranno brevettate nuove forme animali”. Questo articolo descriveva alcuni degli animali di nuova invenzione in attesa di brevetto, come i maiali con un genoma contenente un ormone della crescita umano che li fa crescere più rapidamente. "Questi maiali sono più magri di quelli 'naturali', ma soffrono di vari disturbi debilitanti, tra cui lo strabismo, una grave forma di artrite alle articolazioni e una maggiore disposizione alle malattie." 
E' istruttivo mettere insieme questi due titoli comparsi nella stessa settimana, e vedere che cosa ne viene fuori. I fisici vogliono creare un universo in laboratorio: saranno brevettate nuove forme animali, è come leggere un quotidiano che esce sull'Olimpo! All'interno della metafora meccanicistica vi è sempre un parallelismo implicito tra la mente umana, così creativa, e quella che ha creato l'universo, cioè tra gli esseri umani e Dio. 
Il ricercatore umano gode così di un mandato divino che lo autorizza a sperimentare sulla natura terrena, a intervenire su di essa, a manipolarla, in qualsiasi modo gli appaia opportuno. L'inerzia della materia, l'evidente mancanza di sensibilità di tutto ciò che non è umano, assolve il ricercatore da ogni colpa relativa all'evidente dolore che gli può capitare di infliggere agli animali o agli ecosistemi (tale dolore, come ci ha detto Cartesio, è un'illusione, perché gli automi non possono sentire realmente qualcosa). 
La concezione meccanicistica ci pone in una relazione con il mondo che è quella dell'inventore, dell'operatore, dell'ingegnere di fronte alla sua macchina (molti biologi, per esempio, oggi si considerano 'ingegneri genetici'). 
E' questa posizione privilegiata, la licenza che essa ci da di possedere e controllare la natura, di impadronirsene, che ci rende oggi tanto riluttanti ad abbandonare la metafora meccanicistica. Se il meccanicismo si conquistò la sua posizione di predominio nel secolo XVII in virtù della sua compatibilità con la fede in un divino creatore, esso mantiene oggi tale posizione in gran parte in virtù della deificazione dei poteri umani che esso promuove. 
Ma tale deificazione, questo privilegio umano, è a spese della nostra esperienza percettiva. 
Mi spiego meglio. Se sospendiamo la nostra consapevolezza teorica e prestiamo ascolto alla nostra esperienza sensoriale del mondo che ci circonda (alla nostra esperienza non di intelletti disincarnati ma di animali senzienti e intelligenti), troviamo che non siamo fuori dal mondo, ma totalmente entro di esso. Siamo circondati dal mondo da ogni parte, immersi nelle sue viscere. 
Quindi la nostra relazione sensoriale con il mondo non può essere quella tra un osservatore e un oggetto: in quanto animali dotati di sensi, non siamo mai osservatori disinteressati, ma partecipiamo a un campo dinamico, mutevole e anche ambiguo. 
Maurice Merleau-Ponty, il filosofo francese che ha forse più accuratamente di ogni altro analizzato l'esperienza della percezione, ne ha sottolineato la natura partecipatoria richiamando l'attenzione sul fatto ovvio, ma facilmente dimenticato, che la nostra mano, con cui tocchiamo il mondo, è essa stessa una cosa che si può toccare, e cosi fa essa stessa parte del mondo tattile che esplora. 
Parimenti gli occhi, con cui vediamo il mondo, sono a loro volta visibili. Essi fanno totalmente parte del mondo visibile che vedono, sono una delle cose visibili, come la corteccia di un albero, o un sasso o il cielo. Per Merleau-Ponty, vedere è anche, al tempo stesso, sentirsi visti e toccare il mondo è anche esser toccati dal mondo! Chiaramente una mente del tutto immateriale non potrebbe né vedere né toccare le cose, non potrebbe sperimentare assolutamente alcunché. Noi possiamo sperimentare le cose, toccare, udire, sentire i sapori, solo perché, in quanto corpi, siamo noi stessi parte del mondo sensibile, e abbiamo noi stessi delle sensazioni tattili, acustiche, olfattive, eccetera. 
Possiamo percepire le cose solo perché facciamo completamente parte del mondo sensibile che percepiamo. Potremmo altrettanto bene dire che siamo organi di quel mondo e che il mondo percepisce se stesso attraverso noi. Ma la cosa principale che dobbiamo apprendere da Merleau-Ponty è che, dalla prospettiva della nostra coscienza incarnata, vissuta, la percezione è sempre vissuta come una partecipazione interattiva, reciproca. L'evento della percezione non è mai istantaneo, essa ha sempre una durata, e in tale durata c'è sempre un movimento, un interrogare e un rispondere, un sottile sintonizzarsi degli occhi a quanto essi vedono, delle orecchie a quanto odono, e cosi noi entriamo in relazione con le cose che percepiamo. 
Quando, per esempio, la mia mano si muove sulla superficie di un sasso trovato sulla spiaggia, le mie dita devono adeguarsi alla particolare 'grana' della sua superficie, devono trovare il movimento giusto, il modo esatto di toccarla, se vogliono scoprire le sue minime rientranze e sporgenze; i miei occhi devono trovare il giusto modo di guardare e di mettersi a fuoco sulla superficie del sasso se vogliono scoprire i segreti della sua composizione minerale. E' in questo modo che il sasso insegna ai miei sensi e informa il mio corpo. E più resterò in compagnia del sasso, più imparerò. Vi è come un mutuo accordo tra il mio corpo e il sasso, tra il sasso e il mio corpo. Lo stesso accade per tutto quello che percepiamo, costantemente, di continuo, le strade asfaltate su cui camminiamo, gli alberi intorno alla nostra casa, le nuvole su cui cade il nostro sguardo. 
La percezione è sempre un impegno attivo nei riguardi di ciò che si percepisce, una percezione immediata scopre sempre le cose e il mondo come presenze ambigue, animate, con cui ci troviamo in relazione. Che questa sia la nostra esperienza umana, innata, delle cose, lo dimostrano i discorsi di pressoché tutti i popoli tribali, indigeni, i cui linguaggi si rifiutano di designare le cose, e in genere il mondo sensibile, come definitivamente inanimato. Se una cosa ha il potere di richiamare la mia attenzione o di catturare il mio sguardo, è ben difficile considerarla inerte. "Se questa pietra non fosse in un certo senso viva, non potreste neppure vederla", mi disse un vecchio sciamano nel deserto vicino a Santa Fe. E con ciò intendeva dire, credo, che il semplice vedere qualcosa è gia essere in un rapporto attivo con quella cosa; e come si potrebbe essere in un rapporto dinamico con qualcosa di completamente inanimato, senza alcuna potenza o spontaneità propria'? Come, in realtà? 
Affermando che la materia è del tutto passiva e inerte, il meccanicismo nega la nostra esperienza percettuale e la nostra implicazione sensoriale nel mondo. Lo scienziato che si attiene a una concezione fondamentalmente meccanicistica del mondo naturale deve interrompere la sua partecipazione sensoriale alle cose. Lotta per descrivere il mondo dal punto di vista di uno spettatore esterno. Concepisce la Terra come un sistema di relazioni oggettive dispiegate davanti al nostro sguardo, ma non include nel sistema tale sguardo, il suo stesso atto del vedere. 
Negando la sua implicazione sensoriale in ciò che cerca di comprendere, egli resta in possesso soltanto di una relazione mentale con ciò che altro non è che un'immagine astratta. Lo stesso vale per ogni oggetto o organismo particolare che il meccanicista studia. Anche qui egli deve assumere la posizione dell'osservatore disinteressato. Deve reprimere qualsiasi implicazione personale con l'oggetto, qualsiasi traccia di soggettività deve essere eliminata dal suo resoconto. 
Ma questo è impossibile, perché sussiste sempre qualche interesse, qualche circostanza, che ci inducono a soffermarci su un dato fenomeno piuttosto che su un altro, e questo condiziona necessariamente ciò di cui andiamo in cerca e ciò che scopriamo. Siamo sempre nel mondo e del mondo, quel mondo che cerchiamo di descrivere dall'esterno. Possiamo negare, ma non possiamo evitare di essere coinvolti da ciò che percepiamo, qualsiasi cosa sia. 
Quindi, possiamo dichiarare che il mondo sensibile è inesorabilmente inerte o inanimato, ma non possiamo mai sperimentarlo totalmente come tale. Al massimo, possiamo cercare di rendere inanimato il mondo sensibile, uccidendo o ciò che percepiamo oppure la nostra esperienza sensoriale. La nostra negazione o partecipazione si manifesta così in una forma particolare, una forma che fa violenza al nostro corpo e alla Terra. 
Il meccanicismo, quindi, è una concezione che nega la natura intrinsecamente reciproca e partecipatoria dell'esperienza percettuale. In tal modo reprime e soffoca i sensi, che non sono più liberi di impegnarsi apertamente con manifestazioni naturali quali gli alberi, il canto degli uccelli, il moto delle onde. Sempre più ci dimentichiamo della Terra animata via via che il nostro corpo si richiude su se stesso: il nostro scambio diretto con il mondo sensibile è inibito. Il meccanicismo sublima il nostro rapporto carnale con la Terra trasformandolo in una relazione puramente formale, non con il mondo, ma con un'immagine astratta simile a una copia carbone, con un ideale di una verità artificiosamente confezionati. 
Questa epistemologia mentalistica, con la sua paura di una relazione diretta e la sua intolleranza dell'ambiguità, è il segno, oserei suggerire, di una scienza immatura e adolescente, una scienza che non ha ancora raggiunto la maggiore età. Anche se sporadicamente essa fomenta grandiosi sentimenti di potere e dominio sulla natura quale potrebbe averne un dio, la scienza come il meccanicismo la intende, è intrinsecamente instabile, perché fondata su una negazione delle stesse condizioni che rendono possibile una scienza, quale che sia. 

Una simile scienza non può durare; deve o obliterare il mondo in un'apoteosi finale di negazione, oppure lasciare il posto a una scienza di tipo diverso, una scienza che possa affermare anziché negare il nostro legame vivente con il mondo che ci circonda. L'ipotesi Gaia potrebbe essere proprio il segnale che sta emergendo una siffatta scienza matura, una scienza che non cerca di controllare il mondo, ma vuole parteciparvi, che non cerca di intervenire sulla natura, ma vuole collaborare con essa. 
Se la composizione chimica dell'aria che respiriamo viene davvero continuamente verificata e mantenuta quale è dalla sommatoria di tutti gli esseri viventi della Terra che agiscono di concerto, come un unico sistema coerente, autopoietico o vivente, allora il mondo materiale che ci circonda non è, in alcun senso, inerte o inanimato. 
Questi insetti, questi alberi, perfino queste pietre non sono totalmente passivi e inerti. Infatti non possiamo più percepire la natura materiale come una collezione di pezzi di una macchina scomponibile: la natura non è una macchina creata, ma piuttosto una fisiologia vivente, immensa, autogenerantesi, aperta e capace di reagire al mutare delle circostanze. In breve, essa è un'entità. Naturalmente, possiamo ancora cercare di parlare di Gaia in termini puramente meccanici, o cercare di concepire Gaia come un insieme di processi strettamente oggettivi, sforzandoci così di mantenere la nostra scienza entro il vecchio paradigma meccanicistico a cui siamo ormai abituati. 
Possiamo essere riluttanti a rinunciare al sogno di un'oggettività ben definita, e della realtà statica a cui tale oggettività corrisponderebbe. Tuttavia, Gaia non potrà mai rientrare del tutto in un discorso a base di meccanismi. [Un meccanismo] è completamente determinato, esso agisce, come abbiamo visto, in funzione di un insieme di regole e strutture prevedibili e fisse che esso non ha generato. Ma è precisamente a tale formulazione che resiste Gaia, in quanto sistema che si autogenera. 
Naturalmente, possiamo dire che Gaia è una macchina, o un insieme di meccanismi, che si autocostruisce. Bello! Ma allora abbiamo rinunciato, forse senza rendercene conto, a quella parte della metafora che rende tanto affascinante il meccanismo: una macchina che crea se stessa, infatti, non è più completamente prevedibile, perché si genera come capita, in modo creativo. (Non abbiamo garanzia, per esempio, che i cosiddetti 'meccanismi' adoperati da Gaia per regolare la salinità degli oceani o per limitare l'ingresso della radiazione ultravioletta nell'atmosfera, siano precisamente quelli stessi che essa impiegherà tra un centinaio di anni.) Gaia, in quanto entità autonoma che si autogenera, è ne più ne meno prevedibile di quanto non lo sia un corpo vivente, e potremmo benissimo parlarne in tali termini e smettere di fingere che essa sia qualcosa di simile a una macchina che potremmo costruire. 
L'ipotesi Gaia indica che il mondo in cui abitiamo assomiglia di più a un organismo vivente che a un orologio, o ad un'astronave o perfino a un computer. E noi siamo completamente dentro a questa entità organica, circondati da essa. 
Perché l'ipotesi Gaia dice che l'atmosfera in cui viviamo e pensiamo è essa stessa un'estensione dinamica della superficie planetaria, un organo funzionante della Terra animata. Come ebbi a dire in un precedente articolo. 
Forse la nuova importanza data dall'ipotesi Gaia all'atmosfera di questo mondo costituisce il suo aspetto più radicale. Infatti implica che noi, come individui, prima di riconoscere la Terra come una presenza organica che si autosostiene, dobbiamo ricordare lo stesso medium in cui ci muoviamo, rifare la conoscenza con esso. Non è più possibile confondere l'aria con una presenza meramente negativa, come l'assenza delle cose solide; l'aria è essa stessa una densità (misteriosa proprio perché invisibile) purtuttavia una presenza tattile, corporea. 
Noi siamo immersi nel suo seno con la stessa sicurezza con cui il pesce è immerso nel mare. E' il medium, l'interlocutore silenzioso di tutte le nostre fantasticherie, dei nostri umori. Semplicemente, non possiamo esistere senza il suo sostegno e la sua nutrizione, senza la sua partecipazione attiva in tutto ciò che siamo e facciamo in qualsiasi momento. In concerto con gli altri animali, con le piante, con gli stessi microbi, noi siamo una parte attiva dell'atmosfera della Terra, che fa circolare costantemente il respiro di questo pianeta attraverso i nostri corpi e i nostri cervelli, scambiando certi gas vitali con altri, e cosi verificando, controllando e mantenendo la delicata costituzione del medium. 
Così con il solo respiro partecipiamo alla vita della biosfera. Ma non solo con il respiro! Se la biosfera è veramente un'entità coerente che si autosostiene, allora tutto quello che vediamo, che udiamo, ogni esperienza dell'odorato, del gusto, del tatto, informa i nostri corpi sullo stato interno di quest'altra e più vasta fisiologia, la biosfera stessa. La percezione sensoriale, allora, è realmente una forma di comunicazione tra un organismo e la biosfera vivente. (E potrebbe essere così anche quando osserviamo noi stessi, notando, per esempio, di avere il mal di testa o lo stomaco sottosopra. Perché noi stessi siamo parte di Gaia. Se la biosfera è un'entità vivente, allora l'introspezione, l'ascolto del proprio corpo, può diventare un modo di ascoltare la Terra, di sintonizzarsi con essa).
La percezione è una comunicazione o perfino una comunione, una partecipazione dei sensi tra noi stessi e il mondo vivente che ci abbraccia. Abbiamo visto che questo è esattamente il modo in cui comunemente sperimentiamo la percezione, come un'interazione, una partecipazione o un intreccio tra noi e ciò che stiamo percependo. La percezione non è mai strettamente oggettiva, perché percepire qualcosa significa esserne coinvolti, sentirsi influenzati dall'incontro con essa. Abbiamo visto come il meccanicismo neghi questa dialettica, presupponendo invece che il mondo sia un oggetto creato, fisso e immutabile, incapace di una risposta creativa. L'ipotesi Gaia afferma con decisione la natura partecipatoria della nostra esperienza percettuale in quanto definisce l'ambiente fisico come qualcosa di animato e vivente, il che è precisamente il modo in cui i nostri corpi lo sperimentano. 
Cosi l'ipotesi Gaia permette, letteralmente si direbbe, un ritorno ai nostri sensi. Diventiamo consapevoli, ancora una volta, dei nostri corpi senzienti, e del mondo corporeo che ci circonda. Se il mondo in cui abitiamo è veramente una macchina, un oggetto statico e finito, allora non può reagire nella nostra attenzione; non vi è nulla a cui partecipare o con cui comunicare, salvo noi stessi, le nostre stesse 'menti creative'. Se invece la Terra a non è un oggetto finito, ma si va continuamente creando, allora tutto è aperto alla partecipazione. Dall'ideale dominio platonico dei pensieri e delle teorie siamo riportati in questo regno che abitiamo con i nostri corpi, in questa terra che dividiamo con gli altri animali e le piante e con le entità microbiche che vibrano e ruotano nelle nostre cellule, come nelle cellule del ragno.
I nostri sensi si liberano dai vincoli meccanicistici imposti loro da un linguaggio superato, cominciano a partecipare al corso della vita della Terra che ci circonda. 

Siamo ora in grado di controbattere brevemente l'epistemologia del meccanicismo, ricorrendo alle implicazioni epistemologiche di Gaia. Il modello meccanicistico del mondo implica un'epistemologia mentalistica, il principio che la conoscenza più esatta delle cose consista in un apprendimento distaccato, intellettuale, purgato di qualsiasi coinvolgimento soggettivo, personale o percettivo (cioè corporeo). E' una conoscenza astratta, disincarnata. Al contrario, la comprensione gaiana del mondo, quella che parla della biosfera non come di una macchina ma come di una fisiologia vivente, autopoietica, implica un'epistemologia partecipatoria. 
E come la Terra non è più una macchina, così non lo è il corpo umano che si rivela invece una fisiologia pensante, senziente, sensibile, un microcosmo della autopoietica Terra. Non è quindi in quanto mente distaccata, ma in quanto corpo vivente che io posso pervenire a conoscere il mondo, partecipare ai suoi processi, sentendo che la mia vita risuona con la sua vita, diventando sempre di più una parte del mondo. La conoscenza, qui, è sempre conoscenza carnale, un sapere nato dal sintonizzarsi del corpo stesso con ciò che esso studia e con la Terra. Questa concezione è molto vicina a quella di Ludwig Fleck, il grande epistemologo e sociologo della scienza, che nel 1929 scriveva: La conoscenza non è né contemplazione passiva né acquisizione dell'unico possibile apprendimento di qualcosa di dato. Essa è un'interrelazione attiva, viva, un lasciarsi plasmare e un plasmare, in breve, un atto di creazione (o, potremmo aggiungere, di co-creazione). 
Possiamo chiederci che tipo di scienza verrebbe fuori se una tale epistemologia dovesse prendere piede e diffondersi nella comunità umana. E' probabile che gli scienziati perderebbero ben presto ogni interesse per la ricerca di una copia carbone della Terra, privilegiando invece la scoperta di un modo per migliorare la relazione tra l'umanita e il resto della biosfera e un sistema per por rimedio ai problemi esistenti, causati dal fatto di aver trascurato tale relazione. 
Ho parlato di una scienza che non cerca di controllare la natura ma di comunicare con la natura. La sperimentazione verrà di nuovo intesa come una disciplina o arte della comunicazione tra lo scienziato e ciò che egli studia (un'interpretazione che non è lontana dal modo in cui in origine veniva intesa la pratica sperimentale, come abbiamo visto). 
In realtà sono sicuro che molti scienziati hanno già familiarità con l'esperienza di una profonda comunicazione o comunione con ciò che studiano, anche se l'attuale discorso scientifico rende piuttosto difficile riconoscere tale esperienza o darle voce. (Salvo, naturalmente, nel caso dei fisici. I fisici sono più liberi di dar voce a tali esperienze solo perché il loro oggetto rimane trascendente al mondo della nostra esperienza immediata. Partecipare misticamente ai quanti subatomici o anche all'origine ultima dell'universo non obbliga realmente la scienza ad alterare i suoi principi sulla natura inerte o meccanica del mondo sensibile di tutti i giorni, e quindi non mette veramente in pericolo il nostro diritto di dominare e manipolare il mondo immediato che ci circonda. Ma i biologi, che studiano proprio tale mondo, il mondo che possiamo direttamente percepire, spesso con i nostri sensi, senza bisogno di strumenti che ci vengano in aiuto, si trovano in una posizione politica assai più precaria).
Tuttavia in una scienza genuinamente gaiana o in una comunità gaiana di scienziati, diventerebbe evidente e manifesto il fatto che siamo già coinvolti in ciò che studiamo, e quindi non sarebbe più necessario cercare di evitare tale coinvolgimento, o di reprimerlo. Al contrario, gli scienziati potrebbero incominciare a sviluppare apertamente e coltivare il loro rapporto personale con ciò che studiano come un mezzo per approfondire la loro intuizione scientifica. 
La biologa Barbara McClintock, a cui è stato assegnato il Premio Nobel nel 1984 per la sua scoperta della trasposizione genetica, è un esempio di questa epistemologia partecipatoria che una scienza gaiana implica. Ella sostiene che un vero scienziato deve avere "una sensibilità dell'organismo, e non solo nei riguardi degli organismi "viventi", ma anche "per qualsiasi oggetto che richiami pienamente la nostra attenzione"'. 
La McClintock descrive un cambiamento quasi magico nel suo orientamento, che le permise di identificare i cromosomi che fino ad allora non era stata capace di individuare. Si tratta proprio di un cambiamento che va nella direzione di un'epistemologia partecipatoria: “Scoprii che più lavoravo con loro, più i cromosomi diventavano grandi, e che quando lavoravo veramente con loro non ero al di fuori, ma li dentro. Facevo parte del sistema. Ero proprio li, con loro, e tutto diventava grande. Riuscivo perfino a vedere le parti interne dei cromosomi, tutto era veramente li. La cosa mi sorprese perché mi sembrava proprio come se fossi con loro e fossero dei miei amici. Li guardate, e diventano una parte di voi. E vi dimenticate di voi stessi”. 
Come Barbara McClintock giunse a percepire se stessa all'interno del sistema vivente che stava studiando, cosi l'ipotesi Gaia situa tutti noi all'interno di questo mondo che dividiamo con le piante, gli animali, le pietre. Le cose intorno a noi non sono più inerti. Esse partecipano insieme a noi all'evoluzione di una conoscenza e di una scienza che appartiene all'umanità ne più ne meno che alla Terra.

 

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